Il primo figlio
per le giovani coppie italiane arriva più tardi rispetto al resto
d'Europa. Non solo cause economiche: si aspetta di raggiungere lo
status sociale della propria famiglia d'origine. Studio dell'Iims
sui nuovi modelli di genitorialità.
Eccoci qua. Siamo noi, i giovani italiani, i papà più vecchi
d'Europa: un figlio, infatti, decidiamo di averlo in media dopo i 34
anni, e le nostre ragazze (sempre meno spesso diventate mogli) lo hanno
in media a 31 anni. Quale il motivo? Le minori certezze rispetto a
quelle dei nostri genitori, dalla casa al posto fisso, ma soprattutto la
nostra tendenza a vincolare l'assunzione del ruolo genitoriale "almeno”
al raggiungimento dello status socio-economico dei nostri genitori e ad
una realizzazione professionale che però, purtroppo, tarda a venire e,
spesso, non viene mai raggiunta. Tant’è che chi non ritarda l’arrivo del
primo figlio rinuncia molte volte a soddisfare aspirazioni di
realizzazione professionale e spesso si trova a regredire verso
condizioni socio-economiche peggiori rispetto a quelle vissute dalla
famiglia di origine. A dirlo è una ricerca sui nuovi modelli genitoriali
curata dall'Istituto italiano di medicina sociale (Iims) in
collaborazione con il Campus biomedico di Roma, presentata ieri
pomeriggio nella capitale.
Un’indagine originale rispetto a molte altre, perché non ricerca solo
le cause economiche che portano al ritardo nel decidere di fare figli
(cause che sono – ahinoi! - quanto mai conosciute e croniche, nel nostro
paese) ma anche e soprattutto le cause psicologiche. Ed arrivano allora
risultati inaspettati, perché la maggiore difficoltà che lo studio
riscontra è quella della gestione delle nostre aspettative rispetto alla
vita reale: aspettative che si rifanno ai desideri dei genitori, che
possono anche non essere affatto “reali” (ma semplici sensazioni) e che
in definitiva conducono gli studiosi ad individuare nel confronto
intergenerazionale il parametro interpretativo principale per spiegare
il ritardo degli italiani nel generare figli.
La tesi principale è che il fattore economico, cioè il costo legato
all’evento procreativo, non è affatto fondamentale, perché “lo sono
piuttosto le paure inconsce e pre-consce legate ad un futuro incerto non
strutturato su basi solide per una propria realizzazione personale e ad
un presente che immobilizza i giovani in condizioni di vita molto al di
sotto degli standard di vita che i genitori hanno garantito durante il
loro processo di crescita”. In parole semplici, molti giovani di oggi
(la ricerca ha preso in esame un campione di nati a Roma e Milano fra il
1967 e il 1986) posticipano il momento della formazione della nuova
famiglia per una inconscia volontà di raggiungere quella stessa
stabilità economica e status sociale goduta dai loro genitori, e cioè
quella che hanno vissuto loro stessi come figli. Non per tutti è
naturalmente così (la ricerca mostra chiaramente il contrasto fra due
gruppi, quello dei “ritardatari” che aspettano fino a 34 anni e quello
dei “non ritardatari” che diventano papà a poco più di 27 anni), ma ciò
che colpisce è il fatto che il ritardo, quando c’è, non è affatto
intenzionale: l’85% indica un’età ideale per avere figli di molto
antecedente rispetto a quella in cui sono effettivamente diventati
genitori (mediamente, lo scarto è di 4,2 anni), e indicano mediamente di
voler avere 2,5 figli, un valore ben al di sopra dell’attuale tasso di
fecondità (1,33) e anche del tasso che garantirebbe la sostituzione
(2,1).
Naturamente (ci mancherebbe!) pesano anche altri fattori, come “la
forma che assume un legame sentimentale, a partire dalla scelta del
partner”, che ha molto a che fare con le esperienze più o meno positive
vissute nell’infanzia. Interessante – ad esempio - il dato sulle
differenze fra figli di separati/divorziati e persone che hanno invece
avuto la possibilità di vivere in una famiglia stabile: per i primi la
ricerca segnala una maggiore difficoltà a mantenere una relazione di
coppia stabile e una scelta genitoriale ferma, mentre per i secondi
sembrano propensi e disposti a “rischiare” di più. Con alcuni paradossi,
perché sono proprio le ragazze che si sentono più sicure del proprio
rapporto di coppia a segnare un ritardo oggettivo nell’avere figli, con
le donne più insicure a raggiungere prima il traguardo dell’essere mamma
(nei primi sei anni di unione accade al 71,5% delle “insicure” contro il
54,8% delle “sicure”).
Ad ogni modo, segnala l’Iims, se le politiche di sostegno alla
genitorialità guardano solo agli incentivi finanziari, non considerando
la complessità dei sistemi di aspettative di realizzazione professionale
e affettiva di cui le nuove generazioni si fanno portatrici, sono
destinate a fallire miseramente. E questo non per chissà quali difficili
motivi, ma perché semplicemente "mancano il bersaglio”. Ecco allora che
meritocrazia, competitività, conciliabilità fra lavoro e famiglia, reti
di sostegno familiare, diventano punti essenziali – anche da un punto di
vista psicologico – per spingere le coppie a “rischiare” il figlio.
Prima che diventi troppo tardi.
Con questo, naturalmente, anche risorse economiche: l'Italia da questo
punto di vista è tra i paesi che destinano meno risorse alla spesa
sociale. Il Rapporto Eurispes 2007 ricorda che nel periodo 2000-2006
l'Italia ha destinato a questo settore il 25,18% del Prodotto Interno
Lordo, con il dato di Francia e Germania ben sopra il 30%. “Del tutto
insufficienti" - scrive l'Istituto di rilevazione - "appaiono le misure
a favore dei disoccupati, delle donne e della famiglia, per i giovani,
per le persone con difficoltà di inserimento e con problemi di
socialità”. E se “il Governo ha promesso di intervenire a favore delle
donne e dei giovani, nell’attesa manca ancora un piano o un qualsivoglia
progetto nazionale verso queste realtà, alle quali per il momento vanno
incontro alcune iniziative degli Enti locali, soprattutto i Comuni con i
vincoli di bilancio che ne limitano molto l’azione, o le strutture
caritatevoli di matrice religiosa”. Materiale di riflessione per quando
un governo ritornerà in carica.
Archivio Famiglia
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