Al rush finale il provvedimento governativo in
tema di unioni civili: fra frizioni e dialogo, si cerca l’intesa finale.
Tema poco sentito, nonostante tutto. Una riflessione sull’aspetto della
rilevanza pubblica delle relazioni fra persone.
Siccome non bastavano parlamentari, ministri e vescovi, ecco che a
discutere di unioni di fatto sono arrivati anche il Quirinale e il
Vaticano, con le parole spese dal Presidente della Repubblica e dal
direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Sta diventando davvero
grossa, la questione dei pacs che pacs (in salsa francese, come “Patti
civili di solidarietà”) non sono, ma che comunque fanno notizia, e
dividono. Dopo giorni di discussioni, si avvicina finalmente il momento
della verità, quello in cui si potrà conoscere nel dettaglio la proposta
che il governo sceglierà di presentare all’esame delle Camere. Non ci
sarà – pare - un “registro delle unioni civili”, ma verosimilmente si
percorrerà la via della certificazione anagrafica delle convivenze: le
due persone interessate sarebbero cioè chiamate ad effettuare una
dichiarazione per certificare il loro legame (affettivo, sentimentale,
assistenziale, solidale), dal quale discenderebbero poi diritti e doveri
una volta trascorso un determinato periodo di tempo, quello stabilito
perché la convivenza sia definita “stabile”. Quali diritti? Assistenza
sanitaria e successione nell'affitto, probabilmente reversibilità della
pensione, forse successione e assegni “familiari”. Quali doveri? Più o
meno quello generico di reciproca assistenza e solidarietà, e di
contribuzione alla vita in comune in proporzione ai redditi.
Il tutto per portare a compimento quelle otto righe otto inserite nel
programma elettorale dell’Unione di centrosinistra: “L'Unione proporrà
il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle
persone che fanno parte delle unioni di fatto. Al fine di definire
natura e qualità di un'unione di fatto, non è dirimente il genere dei
conviventi né il loro orientamento sessuale. Va considerato piuttosto,
quale criterio qualificante, il sistema di relazioni (sentimentali,
assistenziali e di solidarietà), la loro stabilità e volontarietà”.
Come già ci siamo
detti in un’altra occasione, per un giudizio nel merito è buona
norma attendere il parto, ormai peraltro imminente, del provvedimento.
Ma certo alcune considerazioni si possono muovere. Anzitutto, nonostante
tutto il can can mediatico, davvero si fatica ad intravedere
nel paese un reale e diffuso interesse per questo tema: dei pacs che
pacs non sono, diciamolo chiaramente, non si appassiona quasi nessuno,
né fra gli elettori di quanti auspicano nuovi diritti e nuove libertà,
né fra i cittadini che hanno come punto di riferimento chi sostiene che
la novità legislativa scardinerà la famiglia. Ci mettiamo in mezzo anche
noi: in tutta onestà, nessuno in questa redazione è particolarmente su
di giri di fronte alla “sfida cruciale” che ci si presenta davanti.
Ciò detto però continua ad essere poco chiaro ai supporter del “tutto e
subito” che non c’è peggior democrazia di quella che tratta allo stesso
modo situazioni differenti, e che non si può affatto parlare di
discriminazione di fronte ad una diversità di trattamento motivata dalla
libera e personalissima decisione di rifiutare l’adesione a quel
particolare modello di vita sul quale – e non da oggi - si basa la
società. Il matrimonio, oltre ogni significato religioso, è in soldoni
quella cosa attraverso cui l’unione fra un uomo e una donna legati da un
vincolo di amore acquisisce rilevanza pubblica, con annessi diritti e
doveri: è una presa di impegno verso l’altro e – come coppia – verso la
società intera e i figli che potrebbero nascere. Al di là di quel
linguaggio aulico e forse ingessato che la definisce “cellula
fondamentale” o “società naturale”, la famiglia fondata sul matrimonio
rimane insomma la base del nostro vivere comune.
Il resto, tutte le altre relazioni, sono altra cosa, e senza alcun
giudizio intrinseco sulle stesse è assolutamente legittimo che gli
aspetti pubblici di tali unioni (ché poi nel privato ognuno fa come
vuole) vengano regolati in modo differente, e che non vi sia totale
identità fra il modo di porsi nei confronti di esse e il modo di porsi
nei confronti di una famiglia. In breve: non è il diritto – e dunque lo
Stato – a rifiutare rilevanza pubblica alle coppie di fatto; sono le
persone di una coppia di fatto a "rifiutare" (cioè a scegliere di non
scegliere) quella forma che lo Stato prevede per dare rilevanza pubblica
alla loro unione. La libertà di scelta è pienamente garantita. Ora, si
vogliono cambiare le carte in tavola, moltiplicando le forme tramite cui
si acquisisce rilevanza pubblica? Per carità, tutto può essere fatto, ma
non è affatto scontato che di “progresso civile” si tratti, né che dalla
cosa si tragga giovamento. D’altronde, se una coppia è “di fatto”
proprio perché ha scelto di non essere “di diritto”, ha senso
moltiplicare le forme “di diritto”? E’ un problema di carenza di
istituti pubblici o è una semplice e legittima scelta personale di chi
preferisce non contrarre in forma pubblica i vincoli che il matrimonio
comporta?
Sull’equiparazione totale fra matrimonio e altri tipi di unione la
contrarietà è dunque quanto mai giustificata. Ma ciò che il governo
promette di fare è di non dare vita a nessun “matrimonio di serie B”,
tenendo ben distinti due ambiti che meritano di rimanere distinti.
Se perplessità rimangono, si valuteranno al momento opportuno: senza
nessuna pregiudiziale, però.
Fermo restando comunque che, da questo momento in poi, è giunto il tempo
di dare attuazione anche a tutto il resto del programma elettorale, e in
particolare a quelle parti che prevedono aiuti reali e concreti alle
famiglie (figli, casa, scuola, lavoro, asili, tasse, fisco, ecc.). E non
sono otto righe otto. Sono pagine e pagine e pagine. Quando si comincia?
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