Non c’è nessun motivo per strapparsi le
vesti. Non ancora, quantomeno. Battibeccano pulpiti e scranni,
ma sulle unioni di fatto tutto deve ancora essere deciso.
L’importanza delle premesse e di un atteggiamento dialogante.
Poche
parole a volte possono bastare. Anche perché è assai poco saggio
strapparsi le vesti prima ancora di aver capito se sia lecito e
giusto farlo. Entro la fine del prossimo mese di gennaio, il
Consiglio dei Ministri si esprimerà su un testo – redatto dai
responsabili delle Pari Opportunità e della Famiglia (le
onorevoli Barbara Pollastrini e Rosy Bindi) e vagliato dagli
altri dicasteri interessati, dalla Giustizia all’Economia, agli
Interni – sul tema delle unioni di fatto. Un testo che, se sarà
avallato dal Consiglio dei Ministri, giungerà in Parlamento per
guadagnarsi – in concorrenza con le proposte di legge
alternative – i consensi dei deputati e dei senatori.
I punti fermi finora sono due: il primo è che l’argomento è
spinoso assai, e potenzialmente devastante per un fronte
politico impegnato nella difficile costruzione di un partito
unico (il futuro Partito Democratico); il secondo è che tutto
dovrà ispirarsi al Programma elettorale, che su questo tema così
testualmente recitava (e recita tuttora): “L'Unione proporrà il
riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle
persone che fanno parte delle unioni di fatto. Al fine di
definire natura e qualità di un'unione di fatto, non è dirimente
il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale. Va
considerato piuttosto, quale criterio qualificante, il sistema
di relazioni (sentimentali, assistenziali e di solidarietà), la
loro stabilità e volontarietà”.
Ci sarà tempo per discuterne a lungo, man mano che prenderà
effettivo corpo il testo su cui si concentrerà la discussione.
In questi giorni nel frattempo, come si poteva immaginare
facilmente, lo sport più praticato è quello di prendere
posizione, assestarsi su un crinale e giocare di sponda con
l’avversario di turno: come i soldati che scavano le trincee per
prepararsi all’affondo o reggere a quello del nemico. Metafora
bellica che volentieri avremmo evitato, se non fosse che da
pulpiti e da scranni è proprio questo che ci è sembrato di
intravedere.
Adoperare ad uso proprio espressioni altrui risulta talvolta
poco elegante, soprattutto quando se ne ricava l’impressione di
“usare” - piuttosto che “omaggiare” - l’autore citato. Eppure le
parole spese a suo tempo da un insigne giurista (nonché
cardinale di Santa Romana Chiesa) restano di una chiarezza
disarmante riguardo agli scopi e agli intenti: “Le unioni di
fatto sono un fatto e dai fatti nascono diritti e doveri
reciproci. Perciò è giusto e doveroso che lo Stato li regoli:
ignorarli non mi sembra opportuno né concepibile secondo
diritto. Ma la regolamentazione non deve creare equivoci, fare
assomigliare le unioni di fatto ai matrimoni o essere un primo
passo per un'equiparazione" (card. Mario Francesco Pompedda, già
prefetto della Signatura apostolica).
Fra quelle righe ci trovate tutto: l’unione che si configura
come “fatto”, il “fatto” di doverci avere a che fare in quanto
realtà sociale, i diritti e i doveri che ne derivano (oh si,
anche i doveri, questi sconosciuti…), la regolamentazione
statale e la peculiarità del matrimonio, che altra cosa è e
altra cosa deve rimanere. Chiare le premesse, più facili i punti
di incontro e le conclusioni. Assenti – o antitetiche – le
premesse, inevitabile un clima di scontro che non porterà
frutti. A giudicar la situazione, allo stato attuale non c’è
motivo di strapparsi le vesti. E a ben vedere, sarà bene non
strapparsele neppure dopo, ma semplicemente ragionare, proporre,
dialogare, incalzare e mettere in evidenza ogni punto debole
delle proprie e delle altrui posizioni. Non dovrebbe essere
difficile a chi crede ancora alla forza delle proprie idee.
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