Un
uomo che si cosparge di benzina e tenta di darsi
fuoco in diretta al Tg2 può essere considerato,
almeno in apparenza, solo uno squilibrato in
cerca di pubblicità. Ma quello che è accaduto
l’altra sera durante la rubrica Dieci Minuti,
condotta da Maurizio Martinelli, al di là del
gesto scioccante, ha avuto almeno il merito di
far riaprire la riflessione collettiva
sull’annoso capitolo dei figli contesi tra
genitori separati di nazionalità diverse che,
spesso, culminano con veri e propri rapimenti di
cui, salvo rare eccezioni, le autorità riescono
a venire a capo dopo inenarrabili battaglie
legali. E dopo anni di indicibili sofferenze da
parte del genitore abbandonato. Nicola De
Martino, l’aspirante suicida del Tg2,
rappresenta un caso emblematico. Suo figlio Luca
fu rapito dalla madre australiana quando aveva
solo cinque anni. E malgrado il padre abbia
ingaggiato fin da subito una pesante battaglia
legale, ci sono voluti 13 anni prima che il
ragazzo lo potesse riabbracciare, ma solo perché
diventato nel frattempo maggiorenne: capitali
spesi in avvocati, rogatorie, intimazioni e
richieste di compromesso, non sono serviti a
nulla; è stato Luca che ha scelto di rivedere il
padre.
La legge, in questi casi, è ancora una
pallottola spuntata, perché continua a far
riferimento ad un diritto di famiglia datato
anni ’50 e solo timidamente modificato da una
legge sull’affido condiviso (approvata il 16
marzo scorso) che, tuttavia, non mette certo al
riparo uno dei due coniugi dalla “sorpresa” di
rapimenti e lunghe separazioni.
Il fenomeno è molto più diffuso di quanto si
creda e colpisce in modo profondo
particolarmente i genitori maschi. Il motivo non
risiede certo in una maggiore sensibilità degli
uomini nell’affrontare il dramma di una
separazione, bensì in un elemento statistico
anch’esso noto e ormai diventato una
consuetudine tale da rendere complicato
qualsiasi netto cambiamento di tendenza. Nella
stragrande maggioranza è alle madri che, dopo la
separazione, i bambini vengono affidati. Le
cifre sono chiare. Nel primo semestre 2005 su 5
mila separazioni solo il 3,4% dei bambini è
stato affidato ai padri, l'84,5% alla madre e il
restante 12,1% in affidamento congiunto o
ricovero in istituto. Dunque, nonostante la
legge abbia fatto un passo avanti con
l’affidamento condiviso, ancora oggi sono
davvero poche le coppie che riescono a gestire
la separazione in modo maturo, continuando
invece ad utilizzare in qualche modo i figli
come armi di ricatto nei confronti dell’ex
partner che ha “tradito” e dunque merita la
vendetta peggiore, il vedersi sottratto il
diritto alla genitorialità. Un aspetto che
quindi colpisce, in virtù di questo scenario
statistico, soprattutto i padri. Ma qui si apre
un altro aspetto del problema, emerso solo di
recente quando hanno cominciato a nascere
associazioni di padri separati allo scopo di
lottare per vedersi riconosciuto dalla legge
quella paternità che troppo spesso proprio la
legge ha contribuito a negargli: l’incidenza dei
suicidi. Sono quasi duemila gli uomini che si
tolgono la vita ogni anno in Europa perchè hanno
contratto depressioni gravi e reattive a causa
della lontananza dai figli: su un totale di 28
mila maschi che si uccide, uno ogni cinque ore è
da considerarsi una percentuale altissima,
impossibile da far passare sotto silenzio.
Perché questo accade? Dopo una sentenza di
separazione, raramente consensuale, con
l’affidamento giudiziale – il più delle volte –
dei figli alla madre, per i padri comincia, nel
migliore dei casi, il calvario per riuscire a
strappare all’ex moglie il diritto alla
frequentazione dei figli oltre i tempi stabiliti
dal giudice. E questa è la fattispecie più
favorevole, per quanto sempre lacerante. Ma
quando, come nel caso di Nicola De Martino, il
genitore affidatario decide di riportarsi il
figlio nella terra di origine, per chi resta
comincia un calvario giudiziario dagli sbocchi
incerti. Esiste, è vero, la Convenzione dell’Aja,
che dovrebbe garantire la possibilità, per un
genitore, di frequentare il figlio pur in un
Paese straniero, ma ci sono Paesi che questa
convenzione non la applicano o lo fanno solo in
casi eccezionali. E sono ancora più rari gli
eventi in cui, come vorrebbe proprio la
Convenzione, i figli “rapiti” vengano
prontamente rispediti nella patria di origine su
sollecitazione del genitore che ne denuncia la
sottrazione. Si entra, insomma, in una spirale
di ordinamenti giuridici diversi difficilmente
superabile da un singolo senza robuste
disponibilità economiche. Di tempo e anche di
granitica forza d’animo.
Questo lo stato dell’arte. Che fotografa
l’assenza di una legislazione, condivisa a
livello internazionale e che superi la
Convenzione dell’Aja, tale da mettere al riparo
uno dei due genitori dalla sottrazione di un
figlio a beneficio dell’altro. Ce ne sarebbe
bisogno, ma come avviene per la ricerca sulle
malattie rare, il fenomeno dei “rapimenti” di
minori da parte di uno dei genitori viene
considerato troppo marginale per giustificare
l‘emanazione di una legge di sistema. Altre
difficoltà, poi, risiedono nell’impossibilità di
omologare non solo le miriadi di differenti
legislazioni esistenti nel mondo in materia di
divorzio e affidamento dei minori, quanto anche
le convenzioni sociali che, a seconda dei casi,
ripongono nella madre o nel padre il depositario
principale della potestà sui figli; questioni di
costumi, di antiche consuetudini, di
stratificazioni di divisione dei ruoli a cui
nessuna legislazione sarebbe capace di
rispondere in modo esauriente. Basti pensare che
in tutto il mondo islamico è il maschio ad avere
ogni diritto sulla gestione familiare, mentre in
Israele il diritto di famiglia si tramanda per
via materna ed i figli portano anche il cognome
della madre. Visioni opposte del mondo e della
struttura sociale che mai si potrebbero
conciliare in una normativa universalmente
riconosciuta. L’unica via per uscirne (che è
anche l’arma persuasiva utilizzata da tutti i
legali matrimonialisti mondiali) è quella di
fare appello al buon senso dei coniugi e al loro
affetto nei confronti dei figli. Che, alla fine,
sono sempre gli unici a pagare veramente dei
devastanti dissidi parentali; le separazioni,
anche quelle più “morbide” sono sempre laceranti
e destinate a compromettere il loro sviluppo
sentimentale. Vedersi strappare all’affetto di
un padre per motivi a lui incomprensibili, può
ripercuotersi su un bambino in modo profondo. La
sofferenza di un padre abbandonato è senza
dubbio atroce, ma quella di un bambino lo è di
più.
A questo punto, però, una digressione è
d’obbligo. Si è parlato, perché la cronaca di
questi giorni ha imposto questa visione
dell’argomento, di “padri negati” e di figli
contesi da madri mostrate alla pubblica
opinione, attraverso il racconto degli ex
consorti, come donne senza scrupoli, capaci
delle peggiori atrocità pur di vendicarsi,
forse, di non essere state amate a sufficienza
dai padri dei loro figli. E’ giusto chiarire che
però il dolore sta dalla parte di tutti e non
può certo essere derubricato ad una mera
questione di diversa fragilità o della solita,
polverosa, guerra tra generi. Questo diritto di
essere genitori che oggi - e solo di recente,
purtroppo - molti padri rivendicano con forza, è
un ruolo di cui, altrettanto spesso, si
dimenticano con grande facilità e disinvoltura:
la storia del mondo è a portata di mano per chi
fosse in vena di chiarimenti e di statistiche al
riguardo. Di conseguenza, alle sacrosante
rivendicazioni dei padri negati, vorremmo
aggiungere con altrettanta determinazione anche
quelle delle madri abbandonate con figli ancora
in grembo o troppo piccoli per capire.
E’ piacevole constatare che l’evoluzione della
società e, in particolare, degli uomini, abbia
permesso loro di apprezzare, per quanto con
colpevole ritardo, il dono prezioso di un
rapporto filiale che va ben oltre il semplice
mantenimento materiale del figlio fino alla
maggiore età, come si usava un tempo. Sta di
fatto che le statistiche generali sul fenomeno
dell’abbandono genitoriale non depongono certo a
favore di una paternità negata, bensì in quella
di una maternità da sempre difficile, faticosa,
vissuta troppo spesso in solitudine perché quasi
sempre priva, nonostante i recenti passi in
avanti, di un appoggio vero e consapevole da
parte del proprio compagno.
I padri adesso ci sono, non ne abbiamo dubbi. Le
madri, però, ci sono da sempre. Varrebbe la
pena, ogni tanto, di pensare anche al loro
dolore e alla loro solitudine. Che c’era anche
quando i padri non c’erano.
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