"Negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno ridotto il loro
risparmio annuo del 40%, passando dai 106 miliardi accantonati nel 2001
ai 64 del 2005. La quota di risparmio è passata negli stessi anni dall'8,9 al
4,8% del Prodotto interno lordo. La caduta della propensione al risparmio delle
famiglie italiane è stata causata da un lato dalla crescente difficoltà dovuta
all'aumento dei prezzi e dall'altro dai numerosi e forti disincentivi che sono
sorti ad ostacolare ed a rendere meno appetibile il risparmio". A rilevarlo è l'Eurispes
che sottolinea come: "La contrazione del reddito (dovuta ad un'inflazione non
sufficientemente compensata dagli aumenti dei salari) ha costretto numerose
famiglie del ceto medio a dedicare gran parte o la totalità delle entrate ai
consumi per mantenere o cercare di non abbassare troppo il proprio tenore di
vita. Ma vi sono state anche cause strettamente finanziarie: fra queste vanno
ricordate le perdite subite dai risparmiatori a seguito dei default dei bond
dell'Argentina, della Cirio e della Parmalat e l'abbassamento dei rendimenti dei
Buoni del Tesoro a seguito della riduzione dei tassi di interesse".
Il risparmio non ha le stesse dimensioni in tutto il Paese continua
l'istituto di ricerca: "vi sono grandi differenze nelle diverse aree
geografiche, con una forte prevalenza del Nord e del Centro sul Mezzogiorno ed
una concentrazione nelle grandi città. La differenza riscontrabile fra il Sud ed
il Settentrione è dovuta sia al minor reddito disponibile che ad una minore
predisposizione a depositare i soldi in banca nelle regioni meridionali e nelle
Isole (26,2% contro il 28,6% del Nord). In mancanza di dati territoriali sul
risparmio complessivo delle famiglie, l'ammontare dei depositi è l'unico
indicatore disponibile per valutare la propensione al risparmio nelle diverse
realtà del Paese".
Prendendo in considerazione la diversa dimensione dei depositi pro capite
nelle regioni italiane si evidenzia dallo studio la posizione preponderante del
Trentino (10.285 euro) e della Lombardia (9.346) e in generale di tutto il Nord;
appena inferiori sono i valori per il Centro - ma Toscana (8.249) e Lazio
(9.303) fanno concorrenza alle regioni più ricche - e le modeste prestazioni
delle regioni del Sud: il fanalino di coda è la Calabria (3.607 euro) il cui
deposito medio pro capite è meno di un terzo di quello del Trentino.
Le dimensioni dei crack Cirio e Parmalat e dei danni subiti dai
risparmiatori italiani. Nel complesso la perdita secca iniziale è stata
di 26,5 miliardi di euro: una cifra con la quale si sarebbero potuti finanziare
non uno ma cinque ponti sullo Stretto di Messina. Se negli anni successivi ai
default qualcosa è stato rimborsato ai risparmiatori, l'indennizzo complessivo
può essere stimato non superiore al 25%, questo vuol dire che la perdita sarebbe
"solo" di 20 miliardi, con i quali si sarebbero potuti finanziare "soltanto"
quattro ponti sullo Stretto.
Allo stesso tempo, l'andamento discendente dei tassi di interesse pagati dai
Buoni ordinari del Tesoro ha comportato che da rendimenti pari o superiori al 4%
nel 2001 (e nel 2000 erano ancora superiori) si è scesi, nell'ultimo anno, a
tassi di interesse di poco superiori alla metà (2,04% e 2,15% rispettivamente
per i BOT a tre mesi e per quelli ad un anno) mentre l'inflazione tornava a
mordere con aumenti dei prezzi dello stesso ordine e anche superiori.
Lo stock di titoli a breve, quasi tutti Buoni Ordinari del Tesoro,
detenuto dalle famiglie si è infatti ridotto nel tempo passando dai quasi 27
miliardi del 2001 agli 11 (10,9) miliardi del 2005 con ampie oscillazioni nel
percorso. Nel 2003, in particolare, il crollo di fiducia dei risparmiatori, a
causa del default dei bond argentini e della crisi Cirio e Parmalat, ha portato
al minimo storico il portafoglio di obbligazioni a breve detenute dalla famiglie
italiane (8,1). Come conseguenza della mancanza di fiducia nei confronti dei
titoli azionari e dei titoli a reddito fisso si accresce la preferenza per la
liquidità anche presso le famiglie, che trattengono volumi crescenti di valori
liquidi, sia aumentando la propria dotazione di contante sia accrescendo il
volume dei depositi a vista e quelli facilmente svincolabili.
L'aumento della liquidità trattenuta dalle famiglie è stato
pari al 30% (+31,2) dal 2001 al 2005. Rilevante è la crescita dello stock di
biglietti e di depositi a vista (+42% in quattro anni) mentre più contenuto ma
pur sempre positivo (+16%) l'andamento degli altri depositi, quelli che, non
essendo incassabili a vista, offrono rendimenti maggiori. Ma aver trattenuto
quote crescenti dei propri risparmi in forma liquida si è rivelato un boomerang
che si è rivoltato contro i risparmiatori a causa dell'effetto congiunto
dell'inflazione e dei bassi tassi di interesse. Mettendo a confronto, anno dopo
anno, la perdita di valore dell'euro con i tassi lucrati (si fa per dire) sui
depositi di conto corrente e scontando per il valore così calcolato l'ammontare
dei depositi delle famiglie, si ottiene la dimensione della perdita subita dai
risparmiatori. Ogni anno sono stati bruciati dai 6,4 ai 9,63 miliardi di euro
per un totale, nei cinque anni, di oltre trentotto miliardi di euro (38,2).
Il calcolo dell'Eurispes
ha riguardato solo i depositi a vista e senza tener conto delle spese
di intrattenimento del conto, che, in media, assorbono completamente il tasso di
interesse.
Introducendo i costi di gestione e facendo i conti con un'ipotesi non lontana
dalla realtà di rendimenti vicini o pari a zero, la perdita complessiva dei
risparmiatori raggiunge, nei cinque anni, la cifra stratosferica di oltre
sessanta miliardi di euro (61,08). E questo tenendo conto solo dei depositi a
vista, ma perdite si sono registrate anche per forme di deposito che offrono
rendimenti maggiori (ma non sempre superiori all'inflazione) nonché per gli
stessi Buoni del Tesoro i cui rendimenti, nel 2002 e nel 2003, sono stati
inferiori alla perdita di potere d'acquisto della moneta.
Inoltre, i costi dei servizi bancari si sono accresciuti in maniera costante
negli ultimi quattro anni, aggiungendosi come un'ulteriore tassa sul già
bistrattato risparmio. L'Italia è uno dei paesi dove i servizi bancari sono tra
i più costosi (113 euro): solo la Svizzera e l'Australia hanno banche più care
delle nostre con un costo rispettivamente di 137 e 123 euro. L'elevato costo dei
servizi bancari risulta doppiamente punitivo ove si consideri che le spese che
il risparmiatore deve sostenere sono pressoché simili sia che si tratti di
grandi cifre che di piccoli ammontari: si tratta in definitiva di una
imposizione alla rovescia, dove chi più possiede meno paga.
"La situazione si fa ogni giorno più grave" ha dichiarato il
segretario generale Adiconsum Paolo Landi, "la ripresa si fa ogni giorno più
lontana e sempre di più sono le famiglie a rischio sovraindebitamento ed usura".
Il crollo della propensione al risparmio (meno 40% in soli cinque
anni) purtroppo - continua Landi - non ci coglie di sorpresa, e tanto
meno dovrebbe cogliere di sorpresa il Governo.
L'associazione precisa: "La sfiducia nelle istituzioni finanziarie e un
inflazione reale ben al di sopra del 2,1% rilevato dall'Istat, hanno cambiato
profondamente le abitudini delle famiglie italiane. Sono sempre meno quelle che
riescono a mettere da parte qualcosa alla fine del mese, ma ancora di più sono
quelle che per arrivarci devono fare ricorso al credito al consumo in maniera
sempre maggiore (preoccupano slogan come "acquista oggi e paghi tra 12 mesi),
senza essere sicuri di "rientrarci" allo scadere dei prestiti: ciò comporta un
maggior rischio di sovraindebitamento da parte delle famiglie e per alcune la
possibilità di cadere nelle mani degli usurai. Un altro segno della crisi è il
continuo ricorso agli hard-discount per la spesa alimentare: una scelta per
poter mantenere uguale la quantità a scapito della qualità".
Adiconsum chiede al prossimo Governo, quale esso sia, di
cambiare la rotta attuale e mettere in campo gli strumenti necessari alla difesa
del potere di acquisto dei dipendenti, dei pensionati e degli atipici.
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