A prima vista, i dati presentati ieri dall’Istat sulle tendenze nel
mercato del lavoro nel quarto semestre 2004 e per il periodo 2003-2004
delineano un quadro positivo. Il tasso di occupazione è stabile. Vi è stata una
vistosa diminuzione delle persone in cerca di occupazione (-4,3 per
cento) e, molto più contenuto, del tasso di disoccupazione (-0,4 per cento).
Soprattutto, la diminuzione delle persone in cerca di occupazione e del tasso di
disoccupazione ha riguardato il Mezzogiorno (-8,5 per cento delle persone in
cerca di occupazione, -1,1 per cento del tasso di disoccupazione). Un ottimo
segno, si direbbe, anche se il tasso di disoccupazione in queste Regioni
continua a riguardare il 15 per cento delle forze di lavoro, a fronte del 4,3
per cento del Nord e del 6,5 per cento del Centro.
Donne al Sud
C’è tuttavia poco da essere ottimisti. L’occupazione ha praticamente smesso
di crescere. E la diminuzione sia della offerta di lavoro che della
disoccupazione è pressoché tutta dovuta alla diminuzione del tasso di
attività, in particolare delle donne e in particolare nel Mezzogiorno, dove
le donne in cerca di occupazione sono diminuite lo scorso anno del 12 per cento.
Continua quindi a indebolirsi il fattore che dal 1998 maggiormente aveva
contribuito all’innalzamento del tasso di occupazione nel nostro paese, ma che
già dal 2001 aveva cominciato a dare segni di cedimento, come si evince dal
grafico. Siamo di fronte a una vistosa modifica delle preferenze delle donne,
in particolare meridionali, una quota crescente delle quali non sarebbe più
interessata a entrare nel mercato del lavoro, nonostante l’aumento
dell’istruzione? Non credo. Sono piuttosto le condizioni del mercato del lavoro
nel Mezzogiorno, unite alla mancanza di servizi adeguati per favorire la
conciliazione tra lavoro remunerato e responsabilità familiari, a spiegare in
larga misura questo fenomeno, che è in controtendenza sia con quanto avviene
nelle altre Regioni, sia con gli obiettivi europei. Tra le giovani donne
meridionali (15-24 anni) in cerca di lavoro il tasso di disoccupazione tocca il
44,6 per cento (32 per cento tra i loro coetanei), contro il 17,7 per cento del
Nord e il 25,9 per cento del Centro. La disoccupazione femminile di lunga durata
nel Mezzogiorno riguarda il 12,2 per cento delle disoccupate, il doppio di
quella maschile nelle stesse Regioni, due volte e mezza quella media nazionale
per le donne, sette volte quella delle donne nel Nord-Est (1,7per cento). Se le
donne meridionali ricominciano a non presentarsi più sul mercato del lavoro, non
è perché non lo desiderino o non ne abbiano bisogno. Piuttosto perché le
chance di trovare una occupazione - anche nella definizione "larga"
utilizzata dall’Istat come da tutti gli organismi internazionali (aver fatto
almeno un’ora di lavoro remunerato nell’ultima settimana) - sono troppo
scoraggianti.
I lavori a termine
Anche i dati sulla occupazione a tempo parziale e sulle occupazioni
dipendenti a termine confermano la problematicità delle tendenze nel mercato del
lavoro in generale e per quanto riguarda il Mezzogiorno e le donne. Su base
annua, la buona notizia è che il lavoro dipendente a termine è diminuito del 3,1
per cento. Ma questo calo ha riguardato quasi esclusivamente gli uomini,
così come ha riguardato esclusivamente loro la diminuzione del lavoro dipendente
a tempo parziale, che viceversa è aumentato tra le donne, ma esclusivamente nel
Centro-Nord. In altri termini, aumenta, di poco e con differenze territoriali,
l’occupazione maschile a tempo pieno e indeterminato. L’occupazione femminile
invece, là dove non diminuisce, rimane più facilmente in contratti temporanei
e/o a tempo parziale. Le lavoratrici a tempo parziale sono ormai il 24,7 per
cento del totale dei lavoratori dipendenti. Ma nel Mezzogiorno, neppure la
possibilità di ricorrere a contratti a tempo determinato e/o parziale sembra
incoraggiare la partecipazione femminile. Insieme a quelli sulla stabilità del
tasso di occupazione complessiva, questi dati segnalano anche che la
pluralizzazione dei modelli orari e delle forme contrattuali dal pacchetto Treu
in poi, ha esaurito la propria efficacia.
Secondo le stime presentate dall’Istat sono oltre due milioni i lavoratori
con una occupazione principale "non standard" (il 9 per cento circa di tutti gli
occupati): lavoratori interinali, altri lavoratori dipendenti con contratto a
tempo determinato, prestatori d’opera occasionali, collaboratori coordinati e
continuativi. Si tratta di una popolazione fortemente eterogenea, la cui
incidenza sul totale degli occupati è rimasta stabile nell’ultimo anno.
Il gruppo più problematico, e dai contorni contrattuali più indefiniti, è quello
dei collaboratori coordinati e continuativi. (1) Essi
costituiscono l’1,8 per cento di tutti gli occupati e il 6,4 per cento dei
lavoratori autonomi. Meno numerosi di quanto comunemente si ritenga (ma in linea
con le stime di molti studi, incluso quello recente del Cnel), oltre la metà è
concentrata nel Nord, in particolare nel Nord-Ovest. Nel Mezzogiorno si trova
solo il 18 per cento dei collaboratori. Sono inoltre concentrati tra le donne
(61 per cento di tutti i co.co.co nel quarto trimestre 2004) e i giovani al di
sotto dei 34 anni (51,5 per cento di tutti i co.co.co nel quarto trimestre
2004). Si tratta di una forza lavoro istruita, occupata per lo più nel
terziario. Soprattutto, sembra trattarsi di una forma di lavoro alle dipendenze
di tipo mascherato, piuttosto che di lavoro autonomo. Quindi non è dissimile dai
contratti di lavoro alle dipendenze a tempo determinato, ma con minori
protezioni sociali. La mono-committenza, infatti, riguarda circa il 90
per cento dei co.co.co, che nell’83 per cento dei casi lavorano nei locali
dell’azienda e in oltre il 60 per cento dei casi non decidono del proprio orario
di lavoro. Queste caratteristiche, di nuovo, riguardano più le donne che gli
uomini, i giovani che gli adulti, le persone residenti nel Mezzogiorno. La
legge Biagi, trasformando i co.co.co in lavoratori a progetto ha
contestualmente ridotto la possibilità di rinnovare all’infinito questo tipo di
contratti. L’obiettivo, condivisibile, è di facilitarne la trasformazione in
contratti di lavoro dipendente a tempo determinato: altrettanto precari dal
punto di vista della sicurezza lavorativa, ma almeno con maggiori protezioni dal
punto di vista previdenziale. È da vedere se invece non sia stata incoraggiata
la loro trasformazione in titolari di partita Iva e in prestatori d’opera
occasionali. Dovremo aspettare i dati del 2005 per fare una prima valutazione.
(1) Vedi anche A. Accornero, Nuovi lavori e rappresentanza, in Diritto
delle relazioni industriali, 1, XV, 2005, anche all’indirizzo
http://www.csmb.unimo.it/adapt/bdoc/02_05/Accornero.pdf
Occupazione e donne
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