La stretta monetaria
della
Banca centrale europea, per quanto largamente anticipata dai mercati,
suscita una serie di reazioni contrastanti. I più ottimisti vi leggono un
segnale di ripresa economica imminente: la Bce attua oggi una stretta
monetaria preventiva per evitare futuri rialzi dell’inflazione. I più
pessimisti vi leggono invece la fine dell’era del denaro facile e predicono
scenari difficili per le finanze pubbliche dei paesi più indebitati (ogni
riferimento all’Italia è puramente casuale), nonché per le famiglie
diventate più inclini ad accendere mutui sulla casa. In realtà, le decisioni
delle banche centrali andrebbero lette con occhi più tecnici.
I perché di una decisione
La decisione di rialzare i tassi oggi è di per sé formalmente
impeccabile. Ciò che non convince è invece il contesto in cui è stata presa.
In altre parole, come questa decisione di oggi debba leggersi nel quadro
della strategia di medio periodo della Bce.
La figura qui sotto spiega meglio di ogni argomentazione il perché della
decisione della Bce di alzare i tassi. La figura mostra l’andamento (dal
1999, data di nascita della Bce, a oggi) di due diverse misure di
inflazione: (i) la misura headline, cioè l’indice armonizzato che
costituisce la misura ufficiale dei prezzi nell’area dell’euro adottata
dalla Bce, e (ii) la misura core, che si differenzia dalla precedente
perché non include nel paniere i prezzi dei beni energetici e dei beni
alimentari.

Fonte: Oecd Economic Outlook, novembre 2005
La figura riporta anche l’indicazione del limite del 2 per cento
di inflazione.
Si noti che un giudizio sulla performance complessiva della Bce a partire
dal 1999 dipende in modo cruciale da quale misura di inflazione si
considera. Stando allo statuto ufficiale, l’obiettivo della
Banca centrale europea è quello di mantenere l’indice headline
"al di sotto ma vicino al 2 per cento". La figura suggerisce che il suo
raggiungimento è stato una eccezione più che una regola. Non solo, ci dice
anche che la vexata quaestio sul presunto eccesso di restrittività
della politica monetaria della Bce in questi ultimi anni è del tutto
infondato. Dalla metà del 2004 l’indice headline è chiaramente al di
sopra dell’obiettivo del 2 per cento. Basta questo semplice dato per
giustificare la decisione attuale di rialzo dei tassi.
Se invece consideriamo l’andamento dell’indice core di inflazione, il
giudizio sulla Bce è molto più positivo: dal 2003 tale indice è rimasto
sempre in linea con l’obiettivo del 2 per cento.
Un elemento importante che emerge dalla figura è l’andamento divergente
delle due misure di inflazione a partire dalla metà 2004. La spiegazione è
semplice: l’evoluzione del prezzo del petrolio, che ha spinto al
rialzo l’inflazione headline, senza intaccare (per definizione)
l’indice core. Ne segue che il rialzo dei tassi della Bce può
leggersi come essenzialmente motivato dai timori di ripresa inflazionistica
in seguito al recente shock petrolifero.
I prezzi dell’energia
Secondo una lettura semplicistica della situazione - che trova però
riscontro in ambienti economicamente ben istruiti (1) -, poiché le
fluttuazioni dei prezzi energetici sono essenzialmente temporanee, il rialzo
dell’inflazione headline sopra il 2 per cento è a sua volta da
considerarsi temporaneo. Ne segue che la risposta migliore della politica
monetaria è quella di lasciare i tassi invariati in attesa che inflazione
headline e core ritornino essenzialmente in linea.
Questo tipo di analisi lascia perplessi, per due principali motivi. Primo,
perché sembra suggerire che le banche centrali non debbano mai rispondere a
fluttuazioni dei prezzi energetici (una eco di errori grossolani già
commessi negli anni Settanta). Secondo, perché in realtà la teoria più
recente ci spiega come rispondere in modo ottimale a shock (come quelli
petroliferi) che incidono direttamente sul tasso di inflazione. Questo tipo
di shock è problematico per le banche centrali, perché crea un dilemma di
politica monetaria: da un lato l’inflazione sale, ma dall’altro il Pil
scende (non necessariamente in termini assoluti, ma quanto meno al di sotto
del potenziale). Perciò alzare i tassi per combattere la ripresa
inflazionistica rischia di aggravare la situazione dal lato della crescita
reale.
La teoria macroeconomica recente ci viene però in aiuto. Ci spiega che sono
due le determinanti principali dell’inflazione corrente:
(1) il livello corrente dell’output rispetto al potenziale (se questo
sale, l’economia si surriscalda e l’inflazione cresce); (2) il livello
dell’inflazione attesa in futuro. Questo secondo elemento è quello
cruciale. Ma perché una più alta inflazione attesa domani implica una più
alta inflazione oggi? Supponete di essere un lavoratore che, contrattando il
proprio salario nominale oggi, voglia difendersi da future erosioni
inflazionistiche. Se vi attendete una più alta inflazione in futuro, vorrete
incorporare queste aspettative in più alti salari nominali correnti. Questo
genera un rialzo del costo del lavoro, e quindi dell’inflazione corrente.
Chiarito questo, chiediamoci in che modo la banca centrale può rispondere a
uno shock (come quello petrolifero) che fa salire il livello dell’inflazione
corrente anche a parità di livello dell’output. Una reazione, la più
classica, è quella di incidere sulla prima determinante dell’inflazione:
quindi rialzare i tassi, abbassare il livello dell’output (con costi
recessivi) e ridurre l’inflazione corrente. C’è però un’altra strada, più
sofisticata, che consiste nel riuscire a incidere anche sulle aspettative
di inflazione (la seconda determinante). Per esempio, lasciando trasparire
che la stretta monetaria di oggi sarà parte di un sentiero restrittivo
di politica monetaria che, seppur gradualmente, si prolungherà nel tempo.
Se gli agenti si aspettano che la banca centrale continuerà a essere
restrittiva anche in futuro, rivedranno già oggi al ribasso le loro
aspettative di inflazione. Incidendo così anche sulla seconda delle due
determinanti dell’inflazione, la banca centrale riesce non solo a far meglio
in termini di inflazione oggi (rispetto a un ipotetico scenario in cui le
aspettative rimangono invariate), ma anche a generare minori costi in
termini di recessione. (2)
Ne consegue una lezione fondamentale. Le decisioni delle banche
centrali non contano più tanto per ciò che attiene alle mosse sui tassi
correnti (oramai spesso ampiamente previste dai mercati). Ma soprattutto per
ciò che le banche stesse riescono (o vogliono) far trasparire sulle loro
intenzioni future. La trasparenza delle decisioni, le modalità di
comunicazione con i mercati, la credibilità diventano quindi requisiti
fondamentali.
Che farà la Banca centrale?
La domanda rilevante sulla decisione della Bce è quindi: questo aumento
dei tassi è parte di una strategia di rialzo dei tassi in futuro? Non
a caso, nella consueta conferenza stampa di presentazione delle decisioni
del Governing Council della Bce, la prima domanda dei giornalisti è stata
proprio sulla strategia futura . Il presidente Jean-Claude Trichet è stato
molto chiaro al proposito: "Non ci stiamo impegnando ex-ante in una serie di
ritocchi dei tassi al rialzo (…)". Eppure, durante la stessa
conferenza stampa, Trichet ha a lungo insistito sull’importanza cruciale di
mantenere le aspettative di inflazione fermamente ancorate, ritenendo
però che questa singola stretta monetaria sia da ritenersi sufficiente a
tale scopo.
Una chiara contraddizione, nell’ambito di una strategia comunicativa
che continua a lasciare perplessi. L’annuncio della Bce stimola un paragone.
È come se io annunciassi di fare il primo passo fuori dalla porta di casa
mia pretendendo che con ciò tutti si aspettino che io andrò a piedi da casa
in centro città. Ma alla domanda: "Quali passi farà dopo il primo fuori
dalla porta di casa?", rispondere: "Non posso impegnarmi ex-ante in una
serie di passi consecutivi da qui in centro, ma ritengo che il fatto che io
abbia fatto il primo sia sufficiente a far credere a tutti che camminerò
effettivamente fino in centro".
Il primo passo (tassi più alti oggi) è quindi certamente una tattica giusta.
Ma la strategia (dove andrà la Bce in futuro?) appare ancora molto confusa.
E di fronte a uno shock come quello petrolifero, che rischia di influenzare
fortemente al rialzo le aspettative di inflazione, la tattica giusta serve
poco: quello che conta è la chiarezza nella strategia.
(1) Si veda l’Oecd Economic Outlook di novembre 2005.
(2) Questo perché se anche l’inflazione attesa scende sarà necessaria
una minore caduta del Pil oggi per ottenere la stessa riduzione
dell’inflazione corrente.
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