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20/02/2006 Sicurezza del Nucleare (Francesco Ramella, www.lavoce.info)

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Prima il petrolio: da venti a sessanta dollari al barile. Poi, il gas russo che si perde un po’ per strada. Così, a quasi vent’anni dal referendum, si torna a parlare del nucleare come di una possibile soluzione alternativa per la produzione di energia elettrica nel nostro paese.

Cosa è accaduto davvero a Chernobyl

Qualche tempo fa, intervenendo a un convegno di Legambiente sulle fonti rinnovabili, Romano Prodi ha sostenuto che un ritorno al nucleare non è maturo, aggiungendo che "non si può dimenticare Chernobyl, quell’evento ci fa pensare a quanta prudenza occorre avere". E nel programma dell’Unione si legge che "Una ripresa del programma nucleare in Italia oggi non è proponibile".
Ma abbiamo davvero dimenticato Chernobyl? Oppure non abbiamo mai saputo cosa è successo?
Se si vanno a rileggere i titoli dei giornali di allora non si può che pensare a un’immane catastrofe: decine di migliaia o addirittura centinaia di migliaia di morti. La realtà, però, è un’altra.
Lo ha riconfermato un recente rapporto del "Chernobyl Forum" un organismo formato da otto agenzie delle Nazioni Unite, tra le quali l’Oms e la Fao e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
A oggi, sono attribuibili direttamente all’incidente meno di cinquanta decessi registrati quasi esclusivamente tra gli addetti che operarono nei pressi dell’impianto.
Furono infatti meno di duecento le persone che ricevettero elevate dosi di radiazione, mentre la quasi totalità della popolazione fu assoggettata a piccole dosi, confrontabili con il livello naturale.
Nel rapporto del Chernobyl Forum si stima che, nel lungo periodo, le radiazioni causate dall’incidente potrebbero causare quattromila morti. Il numero è peraltro difficilmente verificabile, affermano gli stessi ricercatori, in quanto rappresenta una percentuale inferiore all’1 per cento di tutti i decessi.
Occorre aggiungere che tale stima si basa su un’ipotesi prudenziale che non trova riscontro nella realtà ossia che qualsiasi livello di radiazioni abbia un impatto negativo sulla salute.
Una serie di dati empirici sembrano però smentire tale assunzione: per esempio, non si è registrato un incremento dei casi di cancro tra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki che ricevettero una quantità di radiazioni fino a cento volte superiore al livello naturale. Analogamente, studi epidemiologici condotti in Iran, India, Cina, Brasile e Norvegia dove il livello di radiazione è superiore di cinquanta-cento volte rispetto a quello che interessa la maggior parte della terra, hanno mostrato come l’incidenza delle malattie e la speranza di vita media siano analoghe a quelle delle altre zone del pianeta.
È dunque verosimile che il più grave impatto negativo dell’incidente di Chernobyl sia da attribuire non alle radiazioni in sé ma, paradossalmente, alla paura delle stesse creata nella popolazione e alla evacuazione di oltre 350mila persone solo in minima parte realmente necessaria per evitare rischi sanitari. Molte fra queste persone hanno sofferto di problemi gastrointestinali ed endocrinologici non correlati alle radiazioni e hanno subito le evidenti ricadute negative conseguenti allo sconvolgimento delle relazioni famigliari e sociali.
Ancora più tragiche sono state le conseguenze che l’ingiustificato allarme ha determinato in tutta l’Europa: si stima infatti che nei mesi successivi all’incidente di Chernobyl alcune decine di migliaia di donne abbiano abortito temendo inesistenti danni ai feti a causa delle radiazioni.
Un caso analogo si era verificato qualche anno prima in Italia. A seguito dell’incidente di Seveso che, giova ricordare, non provocò vittime, vi furono trenta aborti giustificati dalla paura di possibili malformazioni, nonostante le informazioni scientifiche disponibili consentissero di escludere tale rischio come allora sostenuto dal professor Bompiani e come verificato a posteriori dall’analisi dei feti abortiti.
Non sembra quindi essere quello della scarsa sicurezza un motivo valido per dire no al nucleare: i rischi connessi all’utilizzo di tale fonte energetica sono largamente inferiori a quelli che si registrano in altri settori produttivi e nelle attività che ci vedono abitualmente coinvolti, basti pensare agli incidenti domestici o a quelli stradali.
D’altra parte, per restare alla produzione di energia, nessuno ha mai proposto la messa al bando per ragioni di sicurezza dell’energia idroelettrica benché nello scorso secolo si siano verificati in tale settore disastri di dimensioni assai più rilevanti rispetto a Chernobyl, tra i quali il crollo nel 1976 della diga sullo Yantze in Cina che provocò 200mila morti o, per restare in Italia, il crollo della diga di Gleno (209 decessi) e la tragedia del Vajont (duemila vittime).

Le ragioni economiche

Oltre a causare paure inutili ed effetti negativi diretti, l’esagerazione dei rischi dell’energia nucleare, così come di altre attività produttive, può comportare conseguenze negative indirette. Quando si immagina di ricorrere a fonti alternative più sicure e meno inquinanti spesso ci si dimentica che il costo di produzione dell’energia risulta più elevato rispetto a quello delle fonti tradizionali. Ciò fa sì che, a parità di energia prodotta, venga a ridursi il reddito disponibile poiché il maggior costo dell’elettricità comporta un aumento nel costo di produzione dei beni.
Ma, come dimostrano numerosi studi, le persone destinano una quota del proprio reddito all’aumento della salute e della sicurezza propria e della propria famiglia. Una riduzione del reddito delle famiglie o, per esempio, l’impossibilità di destinare alla spesa sanitaria le risorse impiegate per sussidiare forme di produzione di energia più costose, può quindi comportare danni superiori ai benefici conseguiti. La prudenza, qualche volta, può essere troppa.
Il vero tallone d’Achille dell’energia nucleare potrebbe essere non la sicurezza quanto la convenienza economica, in particolare nel caso in cui il petrolio ritornasse alle quotazioni di qualche anno fa. Ma non vi è ragione perché tale forma di produzione di energia non possa competere ad armi pari con le altre, senza incentivi né sussidi pubblici, ma anche senza immotivati veti preventivi.

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