Quello
di domenica non è un voto facile, per niente. Soprattutto
per chi da sempre si è considerato di sinistra, a
sinistra. Una certa pulsione a sottrarsi ha contaminato
anche chi a votare è sempre andato, fortemente motivato o
più o meno convinto. Per protesta, disillusione, anche
noia, sono in molti che hanno pensato all’astensione, come
atto di cittadinanza solitaria se non come urlo. Ma in
queste ultime ore gli indecisi si assottigliano, si
avverte un cambiamento che più che essere determinato dai
programmi o dalle dichiarazioni dei leader dei partiti, è
piuttosto il frutto dell’elaborazione personale di ognuno,
della capacità individuale di analizzare la situazione del
nostro Paese, di una soggettività politica che comunque
rimane, anche fuori dalla frequentazione dei partiti.
L’astensionismo dunque non è la risposta, ma allora per
chi votare?
Qui la situazione si complica. L’offerta è assai
diversificata, ma non per questo la scelta è più semplice.
Votare a sinistra, la Sinistra Arcobaleno, la Sinistra
critica, per i socialisti, per Ferrando? A parte la
rappresentazione plastica del vizio alla divisione,
dell’incapacità della sinistra italiana di stare tutti
insieme, proprio quando è la sinistra sotto attacco, anche
la presenza della lista unitaria della Sinistra arcobaleno
non convince. E’ più una lista elettorale, fatta peraltro
all’ultimo minuto, che un’idea affascinante di
ricomposizione, di unità. Più un insieme di apparati,
chiusi a difendere i loro spazi di autoreferenzialità che
un’idea nuova di partecipazione e di rappresentanza.
La sinistra alternativa aveva avuto una opportunità nei
mesi passati, anche a seguito dell’uscita di Mussi dai
Democratici di sinistra. Poteva e doveva essere
un’autostrada, per attivare passioni, intelligenze,
speranze. Così non è avvenuto, per incapacità e anche per
non volontà, per calcoli miopi, quando non meschini.
Ritardi, obiezioni, resistenze, chiusure identitarie,
differenziazioni di purezze ideologiche, mentre la
richiesta dal basso di unità era forte; richiesta che
intercettava la necessità oggettiva e soggettiva di
costruire una sinistra moderna, che parlasse all’intero
paese, che avesse un ruolo politico e non solo di
testimonianza.
Poi l’esperienza all’interno del governo Prodi: per la
prima volta un’occasione e anche una sfida, di governo,
per dimostrare che una sinistra unita poteva contare di
più; certo all’interno di un programma di una coalizione
che di sinistra non era e nell’ambito delle ristrettezze
numeriche dei voti del Senato, di cui non si poteva non
tener conto. Ma ognuno è andato per sé, nella rincorsa di
una visibilità che, più che al raggiungimento di alcuni
traguardi, è stata strumento di competizione ed esercizio
di cannibalismo reciproco. Alzare la voce, in una inutile
e sterile la gara a chi la alzava di più, per poi votare
comunque i provvedimenti, anche i peggiori, non è stata
dimostrazione di coerenza, ma semmai d'ininfluenza del
ruolo politico della sinistra.
Oggi, votare la Sinistra arcobaleno è come firmare una
cambiale in bianco, fidarsi di gruppi dirigenti che hanno
invece dimostrato di non essere all’altezza del compito.
Gruppi dirigenti che avrebbero dovuto risparmiarci le
dispute sui simboli, che sempre più sembrano la famosa
coperta di Linus, per privilegiare invece l’analisi
economica e sociale del Paese, con l’obbiettivo di
cominciare a ripensare una teoria e una prassi della
trasformazione possibile. Proposte per il "qui ed ora",
non per l’inizio del ‘900. I gruppi dirigenti della
Sinistra hanno invece dimostrato come la fase più
difficile della sinistra abbia tristemente coinciso con
l’inadeguatezza più conclamata dei suoi vertici, al punto
che il nesso di causa-effetto, in un senso e nell’altro, è
difficilmente escludibile.
A tracciare il cammino incerto sul piano della tenuta
democratica del Paese, non c’è però solo l’inadeguatezza
della sinistra: l’ipotesi di un governo Berlusconi sposta
ancora più a destra lo scenario: senza più il ruolo
equilibratore di Casini, restano solo la Lega e i fascisti
della Mussolini. Si prefigura come concretamente possibile
l’alleanza tra politiche liberiste e politiche
fondamentaliste, come Formigoni già ha dimostrato,
regalando con la sussidiarietà alla Compagnia delle Opere
il mercato dei profitti oltre che quello delle anime.
C’é però un dato impossibile da sottovalutare, al di fuori
di ogni polemica più o meno strumentale sul “voto utile”:
il voto al Pd è, oggettivamente, un voto che può
determinare l’esito delle elezioni, che può fermare la
minaccia di un’Italia in mano alla destra più reazionaria
ed ignorante d’Europa. Ma é - vale la pena sottolinearlo -
un voto contro le destre, non per una prospettiva
politica. Perché il Partito Democratico, dal canto suo, è
tutto e il contrario di tutto. Un eclettismo ideale che va
a braccetto con un ecumenismo sociale, un’operazione
politica dichiarata che taglia strategicamente fuori la
sinistra ma (residuo di sana vergogna) non riesce a
rinnegare la storia della sinistra; un’idea di partito che
dovrebbe essere moderna ma che appare invece un azzardo
anche ai più esperti giocatori in scommesse. Propone un
esercizio ossessivo di nuovismo che recupera i più triti
stereotipi della cultura passata. Insomma, un ibrido
costruito in vitro più che sulla storia di questo paese.
Allora, votare per chi? Le conclusioni sono affidate
all’unica cosa di cui ci fidiamo, la nostra
consapevolezza. Un voto infatti deve essere consapevole,
anche se non pienamente convinto. E la consapevolezza
prioritaria è alla fine sempre quella di salvaguardare
innanzitutto un quadro democratico, proprio perché si è e
si resta di sinistra. Non è certo dalla devastazione
sociale, dalla trasformazione razzista del nostro Paese,
dallo smantellamento dei diritti civili e sociali e dalla
umiliazione delle libertà - a partire da quelle delle
donne - che l’opposizione di sinistra potrà conquistare
coscienze e costruire conflitto.
Ormai abbiamo capito che l’opposizione considerata di per
sé salvifica non paga. I tempi diventano più lunghi,
terribilmente più lunghi, ma restano possibili solo se le
destre non vincono. Scarna ma essenziale verità, che può
servire ad illuminare la decisione politica di ognuno di
noi, per scegliere che il nostro Paese continui ad avere
un governo democratico. Quella che troveremo dentro le
urne è, né più né meno, una emergenza democratica. Questa
destra, impasto di una cultura della libertà negli affari
privati e oscurantista nelle libertà pubbliche, va
fermata.
Nessuno deve sottrarsi a questa battaglia, la posta in
gioco è più alta della delusione che, individualmente o
collettivamente, impera. C’è bisogno di una sinistra nuova
più che di una nuova sinistra, e il primo atto della
ricostruzione del senso stesso della sua esistenza passa
proprio dalla sconfitta della minaccia che incombe da un
lato e dell’indifferenza o del senso d'inutilità
dall’altro.
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