Il nuovo governo dovrà provvedere a una serie
di nomine in posti chiave di aziende e società
controllate dallo Stato e dell'amministrazione
pubblica. Perché non assegnare queste
posizioni a donne? Sarebbe un importante
segnale di cambiamento. Mentre si parla di
declino, il nostro paese continua a privarsi
delle competenze, capacità e conoscenze delle
donne, per motivi culturali, di carenze
istituzionali, di preservazione e conquista
del potere da parte di élites chiuse. Non a
caso, dopo Malta, abbiamo la più bassa
occupazione femminile.
Nella recente crisi del governo Prodi,
uno degli argomenti sul tappeto è stata
l’imminente scadenza di un gran numero
di posti chiave nella pubblica
amministrazione e in aziende e
società a proprietà (o a maggioranza)
pubblica. Nelle prossime settimane, il
governo avrà dunque il dovere e il
privilegio di nominare
una folta schiera di dirigenti e alti
funzionari: un bel pezzo di classe
dirigente del settore pubblico e
dell’economia italiana.
Sarebbe segno di civiltà se questa
coincidenza di scadenze, oltre che un
momento di esercizio del potere e di
perseguimento di interessi particolari,
costituisse un’occasione di cambiamento,
di forte indirizzo politico possibile
anche mediante “semplici” azioni
amministrative. IL SOFFITTO DI VETRO
Non faccio riferimento alla
problematica sollevata, pur
legittimamente, da alcuni partiti, di
non assistere alla spartizione di
poltrone tra partiti ed esponenti di un
governo ormai sfiduciato dal Parlamento.
Penso piuttosto al caso norvegese, dove
invece che un incentivo fiscale o una
semplice multa, nel corso dell’inverno
molte aziende private hanno corso il
rischio di chiudere completamente, per
il mancato rispetto di una norma recente
che impone a tutte le imprese con sede
in Norvegia di riservare a donne
il 40 per cento dei posti nei consigli
di amministrazione.
Già su questo sito
Marcella Corsi ha scritto del troppo
basso numero di donne italiane in
politica, a livello nazionale e locale.
“Basso” sia rispetto agli altri paesi
occidentali, sia semplicemente in
termini assoluti.
Diversi studi documentano che il
cosiddetto “soffitto di vetro”,
la barriera visibile o invisibile che
impedisce alle donne di accedere alle
posizioni gerarchicamente più elevate, è
esteso e opprimente, nel settore
pubblico come in quello privato. Di
nuovo, in Italia danneggia le donne
molto più che negli altri paesi
occidentali. (1)
Per dare solo qualche numero: secondo il
World Economic Forum, per il 2007
l’Italia risulta al trentaduesimo posto
(su 128) in termini di eguaglianza di
genere nell’istruzione, ma solo (o ben)
centounesima nel campo dell’economia e
ottantesima per la partecipazione alla
vita sociale e politica. In primo luogo,
si tratta di un problema etico e
politico, che necessita di una
correzione come obiettivo in sé. Però,
il confronto internazionale è rilevante
anche in termini di efficienza
economica: di fatto, i paesi occidentali
sono quelli con cui più competiamo sui
mercati internazionali, per vendere i
nostri prodotti e servizi, e per
attirare i talenti e i capitali
portatori di innovazione e crescita.
In un momento di competizione
particolarmente aspra, e perfino di
rischio di declino, l’Italia
discrimina e rifiuta l’apporto
fondamentale di competenze, capacità,
conoscenze, di alcuni tra i suoi più
preziosi cittadini, le donne. Non per
ragioni di calcolo razionale o
convenienza economica, ma per motivi
culturali, di carenze istituzionali, di
preservazione e conquista del potere da
parte di élites chiuse.
LA DISCRIMINAZIONE REGIONE PER
REGIONE
L’evidenza empirica mostra che la
discriminazione all’apice della piramide
è la manifestazione di un problema più
ampio, primariamente sociale e
culturale. Ad esempio, fattori culturali
e di discriminazione condizionano
fortemente l’occupazione femminile,
dunque ben al di là del semplice accesso
alle posizioni apicali.
E non casualmente l’occupazione
femminile in Italia è la più bassa in
Europa, dopo Malta. (2).
Se confrontiamo ad esempio le
regioni italiane, possiamo
considerare alcune semplici prime
evidenze: il grafico (a sinistra) mostre
che le regioni in cui le donne hanno più
accesso alle libere professioni - al
“notabilato” caratterizzato da un
prominente status sociale - sono anche
le regioni in cui più alto è il tasso di
occupazione femminile; lo stesso avviene
laddove maggiore è l’accesso di donne ai
consigli regionali (grafico a destra).
Occupazione e discriminazione
nelle regioni italiane
Ecco dunque che la tornata di nomine
all’orizzonte può essere una grande
opportunità per iniziare dal settore
pubblico, senza complesse modifiche
legislative e con effetto immediato. Si
proceda finalmente alla
lottizzazione delle poltrone,
ma si badi ad assegnare le quote
giuste. Le donne italiane non
potrebbero accettare niente di meno
della metà dei nuovi posti, come inizio
del necessario percorso verso il
conseguimento di vere pari opportunità.
(1)Per un’analisi
comparata nei paesi Ocse, si veda ad
esempio il lavoro di Mino Vianello e
Gwen Moore (eds), Women and Men in
Political and Business Elites: A
Comparative Study in the Industrialized
World. London: Sage, 2004.
(2)Per il caso
dell’Italia, si veda ad esempio il
seguente lavoro: Cipollone, A., e D’Ippoliti,
C. (2008), “Discriminating Factors of
Women’s Employment. Using territorial
heterogeneity to inform policy”,
Quaderni Diptea 145, Luiss Guido Carli,
Roma. Disponibile online:
http://econpapers.repec.org/paper/luiwpaper/145.htm
http://www.lavoce.info
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