I risultati delle elezioni regionali sono ormai pubblici. I
commenti, se vi saranno, visto che il mondo dell’informazione pare per
ora interessato a tutt’altro, si incentreranno esclusivamente sui
riflessi che il voto avrà sulla forza relativa dei due poli o dei singoli
partiti in vista delle elezioni politiche del 2006. Interrogativi senza
dubbio legittimi e importanti, che dimenticano però l’oggetto
principale di queste votazioni, e cioè le Regioni italiane. Del resto, né
la stampa né la stessa campagna elettorale è parsa particolarmente
interessata a discutere di temi propriamente regionali o del destino delle
Regioni. Forse non a caso, ma comunque un peccato, visto la rilevanza del
tema.
Qualche riflessione è dunque opportuna.
Un problema irrisolto
In primis, il problema dell’articolazione territoriale dei
poteri appare tutt’altro che risolto nel nostro paese. Dopo l’ondata
di decentramento amministrativo e fiscale della seconda metà degli anni
Novanta, il processo sembra si sia incartato, senza riuscire ad approdare
a una configurazione stabile. Difficile per esempio dire esattamente
per cosa abbiamo votato in queste elezioni, cioè quali sono le funzioni
che i governi regionali svolgono e con quali risorse vi fanno fronte.
Secondo la Costituzione attuale, approvata nel 2001, le Regioni godono di
ampi poteri legislativi e di un sistema di finanziamento largamente
autonomo. Funzioni e risorse che però in larga misura esistono solo sulla
carta. Le nuove competenze attribuite alle Regioni dalla riforma del
2001 non sono state esercitate che in minima parte.
La politica ha poi abdicato interamente al proprio ruolo su questo fronte:
dopo un inizio promettente, l’effettiva attuazione del nuovo Titolo V
è stata completamente lasciata nelle mani della Corte costituzionale,
chiamata a dirimere un contenzioso crescente tra Stato e Regioni. Mani
sapienti, ma che agiscono necessariamente in modo piecemeal, su
ricorso di una delle due parti, senza un disegno organico
d’interpretazione del nuovo testo, che è invece esattamente quello di
cui avremmo avuto bisogno. Di ulteriori risorse e di un nuovo sistema di finanziamento,
poi, non c’è traccia. Dopo anni di rinvii e una pratica del Governo
nazionale opposta a quella del decentramento finanziario, l’ultima novità
è che l’attuazione dell’articolo relativo alle nuove forme di
finanziamento viene rimandata al triennio successivo alla approvazione
della nuova riforma costituzionale. Con in più ulteriori vincoli sull’invarianza
della pressione fiscale complessiva, che lo rendono di fatto inattuabile.
La nuova riforma costituzionale
Di fronte a questi rilievi, gli esponenti della maggioranza di Governo
generalmente rispondono che il Titolo V era di per sé inattuabile e che
per questo è stato necessario imbarcarsi in una nuova e organica
riscrittura della Costituzione. Riscrittura che, difatti, ha impegnato le
due Camere per parecchi mesi. E probabilmente continuerà a impegnarle
anche in quelli restanti della legislatura. Senza entrare nei dettagli
della nuova proposta di riforma costituzionale, tre aspetti devono però
essere sottolineati. Primo, il rapporto tra governi gioca un ruolo del
tutto marginale in questa proposta, tant’è che il Titolo V viene
lasciato sostanzialmente immutato. Di rilievo molto maggiore sono le
proposte relative alla forma di Governo e a quella dello Stato, entrambe
assai discutibili. Secondo, quello che c’è di nuovo sul fronte delle
competenze regionali, la cosiddetta devolution, appare marginale
rispetto al decentramento già introdotto con la riforma del Titolo V e
mai applicato. Terzo, quest’ulteriore decentramento è poi accompagnato
da tali vincoli legislativi e da una struttura decisionale
così barocca da rendere difficile immaginare che i nuovi poteri regionali
possano mai essere davvero esercitati. La confusione legislativa
sarà il vero risultato di questa riforma, se mai essa sarà approvata e
sopravvivrà al referendum.
La situazione attuale
Nel frattempo, le Regioni navigano a vista, sia sul fronte delle
competenze che delle risorse. Con conseguenze non da poco sulla stessa
qualità della competizione politica, visto che la mancanza di una cornice
chiara di responsabilità rende difficile per i cittadini valutare il
ruolo svolto dai singoli governi regionali. Si pensi per esempio alle
principali funzioni svolte adesso dalle Regioni, come la sanità o i
trasporti locali: dove il leit motiv della campagna elettorale è
stato lo scaricare sullo Stato, cioè sul suo insufficiente finanziamento,
le difficoltà attuali. Si noti anche, a questo proposito, che il definitivo
ripudio del decreto
legislativo 56/2000 ha privato il sistema delle Regioni di
un chiaro e coerente modello di finanziamento per il futuro, lasciandole
in balia alla contrattazione politica annuale con il Governo nazionale.
Fortunata questa volta, per la prossimità con le elezioni, ma ignota per
il futuro. Infine, il principale tributo delle Regioni, l’Irap,
è in fase
di smantellamento e non si sa da che cosa potrà essere sostituito. Il
rischio di un ritorno ai trasferimenti vincolati, cioè all’opposto
dell’autonomia, è molto serio.
Non è dunque forse un caso che in queste elezioni si sia parlato molto di
temi nazionali e molto poco di quelli regionali, visto che lo status dei
governi regionali è quantomeno confuso e appare casomai in fase di
ripiegamento. È un peccato perché così si perde uno dei principali vantaggi
del federalismo, l’assunzione di responsabilità dei governi locali.
È anche un peccato perché il decentramento dei poteri potrebbe essere un
importante elemento di una strategia di recupero d’efficienza del paese.
Si osservi a questo proposito che tutti i principali paesi europei hanno
fortemente decentralizzato risorse e competenze negli ultimi anni, perfino
la centralissima Francia. Non lo hanno fatto solo i paesi nordici.
Ma lì, i governi locali già controllano più del 50 per cento delle
risorse. Per inciso, sono anche i paesi europei che crescono di più.
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