
(Parlando di Qe=Quantitative Easing ci si riferisce, in genere, ad un’operazione che rientra nel
complesso delle politiche monetarie adottate da una banca centrale.
La traduzione letterale è "alleggerimento quantitativo", e in italiano anche "allentamento monetario")
Il discorso di Mario Draghi nel tradizionale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole ha deluso molti commentatori. Che si aspettavano indicazioni precise sulla fine del Qe. Ma a ben vedere, qualcosa di importante a riguardo è stato detto.
Il discorso di Mario Draghi nel tradizionale incontro dei
banchieri centrali a Jackson Hole ha deluso molti commentatori. Che si
aspettavano indicazioni precise sulla fine del Qe. Ma a ben vedere,
qualcosa di importante a riguardo è stato detto.
Quando parla Mario Draghi, media e professionisti della finanza
drizzano le antenne per captare ogni possibile indizio sulla fine del
Quantitative easing (Qe). E quando di Qe non parla, come nel discorso
tenuto a Jackson Hole, si finisce per accusarlo di voler fare la
sfinge. Ma basta andare a vedere il tema (e gli altri interventi) del
convegno organizzato dalla Federal reserve bank di Kansas City per
comprendere meglio l’intervento del presidente della Bce e collocarlo
in un contesto più ampio.
La stagnazione globale
Il tema del convegno di quest’anno riguardava le strategie per
promuovere e sostenere la dinamica dell’economia globale. È un tema
che scaturisce dagli strascichi della grave crisi che abbiamo alle
spalle e che, a differenza di quelle precedenti, non ha provocato
soltanto un peggioramento congiunturale ma ha prodotto un preoccupante
calo della crescita potenziale. La crescita potenziale è quel sentiero
di crescita verso il quale ogni economia tende a ritornare dopo una
recessione. Ma questa volta non è andata così. Né l’Europa né gli
Stati Uniti sono riusciti a riprendere il sentiero secolare interrotto
nel 2008.
Di questo si è parlato al convegno di Jackson Hole, sia dal punto
di vista delle politiche di lungo periodo che da quello delle
politiche congiunturali.
L’intervento di Draghi riguardava le prime ed è riassumibile in
tre punti:
- Nelle economie avanzate, dove la popolazione rallenta, una
maggior crescita potenziale è possibile solo con l’aumento della
produttività, e nell’economia globale questa è stimolata dal grado
di apertura economica dei paesi che ne fanno parte.
- Il consenso sociale nei confronti del grado di apertura
economica verso il resto del mondo si è tuttavia eroso al crescere
dei rischi dagli effetti collaterali della globalizzazione: rischi
di posizioni dominanti e di mancata reciprocità, di ricadute
negative sulla stabilità interna, di maggiori diseguaglianze.
- Da questo si esce non con maggior protezionismo, ma con migliori
politiche nazionali (che sostengano le fasce più vulnerabili
ricorrendo a programmi di formazione e riqualificazione
professionale) e con una più robusta cooperazione multilaterale che
sia però soggetta a un miglior controllo democratico.
Politica fiscale e crescita
Dal punto di vista delle politiche congiunturali, poi, c’è sempre
il convitato di pietra che si chiama politica fiscale, che da entrambe
le parti dell’Atlantico non è riuscita a contrastare la caduta degli
investimenti privati e pubblici. Della politica fiscale tratta una
delle quattro relazioni presentate al convegno. I due autori
Alan Auerbach e Yuriy Gorodnichenko hanno presentato uno studio
che prende in considerazione 38 paesi. I risultati indicano che uno
stimolo fiscale nel corso di un forte rallentamento congiunturale non
fa crescere il rapporto debito/PIL e non mette a repentaglio la
sostenibilità del debito. I due economisti di Uc Berkeley ne deducono
che la politica fiscale sia stata sottoutilizzata durante la Grande
recessione, principalmente per un eccessivo timore degli effetti di un
aumento della spesa pubblica sul debito.
E il Qe?
A ben guardare, Draghi sul Qe qualcosa lo ha detto anche a Jackson
Hole.
In altre occasioni aveva descritto le tre condizioni che secondo
la Bce devono verificarsi prima di sospendere il programma di acquisto
di titoli. Occorre: a) che l’inflazione dell’area euro torni ad essere
inferiore ma prossima al 2 per cento; b) che si dimostri stabile a
quel livello; e c) che sia in grado di rimanerci anche senza il
sostegno della politica monetaria. Quando a Jackson Hole ha affermato
che se è vero che la ripresa mondiale si rafforza, è anche vero che il
consolidamento della ripresa in Europa è solo agli inizi, il
presidente della Bce ha implicitamente allungato la vita al
Quantitative easing.
Altre volte Draghi ha parlato di incertezza globale, con cui la Bce
dovrà fare i conti a settembre. Come già
sottolineato in questo sito, l’apprezzamento dell’euro sul dollaro
era dovuto da tempo, esito naturale in una regione economica con un
avanzo commerciale eccezionale e un tasso d’inflazione inferiore a
quello americano. Con un euro più forte, l’inflazione crescerà di
meno, e se la domanda interna continuerà a scarseggiare anche
l’economia rallenterà, tanto più se le politiche fiscali continueranno
a non essere all’altezza della fase congiunturale. E ciò senza contare
il fatto che la fase di crescita negli Stati Uniti potrebbe essere
agli sgoccioli e risentire della scarsa lucidità che abita alla Casa
Bianca.
E, nel frattempo, il programma di acquisti continua.
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