La compagnia, privatizzata nel 1997, ha chiuso i conti nel 2009 con
34 miliardi di euro di debiti. Fronteggia lo stesso rosso di 10 anni fa ma
ha dimezzato i dipendenti e ha ceduto asset e patrimonio
immobiliare
Per capire come si è arrivati a questo punto più che gli esperti di bilanci
servono quelli di linguistica. Bisogna infatti consultare il dizionario per
comprendere l’esatto significato di spolpare - cioè ridurre all’osso - il
verbo che meglio descrive la parabola di Telecom. Quella che un
tempo era la più grande multinazionale italiana, undici anni dopo la scalata
dei "capitani coraggiosi", guidata dall’attuale patron di Piaggio e
presidente di Alitalia, Roberto Colaninno, nei fatti non
esiste più. Due giorni fa i conti del 2009 si sono chiusi con 34 miliardi di
debiti. Il nuovo amministratore delegato Franco Bernabè
promette che la (spaventosa) cifra diminuirà di altri 6 miliardi entro il
2012. Ma anche se così fosse un fatto è certo: Telecom oggi
fronteggia più meno lo stesso indebitamento di due lustri fa, solo che ha
dimezzato i dipendenti - ora sono circa 60.000 - ha ceduto tutto il suo
patrimonio immobiliare, non ha ammodernato la rete rimasta ferma al 1994, ha
ridotto il numero di clienti e ha venduto società e partecipazioni per più
di 15 miliardi di euro. Insomma è stata a poco a poco spolpata.
Non è un caso, perché questa storia di predatori e prede nasce col trucco:
una scalata a debito - quella di Colaninno - che ha causato un enorme buco
nel bilancio finora impossibile da ripianare, anche perché la società ha
continuato a distribuire sontuosi dividendi. Privatizzata nel 1997 dal
governo Prodi, che era alla disperata ricerca di 26mila
miliardi di lire per entrare nell’euro, Telecom a partire dal 1999
è stata un continuo teatro di scorribande e battaglie. Non solo finanziarie.
Ma anche - e soprattutto - politiche.
La prima scoppia quando al governo c’è Massimo D’Alema. È
in quel momento che Colaninno, il finanziere bresciano, Emilio
Gnutti, e Giovanni Consorte, patron di Unipol,
con 180 piccoli imprenditori padani, lanciano l'assalto a Telecom
tramite una società lussemburghese: la Bell. Chi mette i soldi?
Pochissimi gli imprenditori, moltissimi le banche: la sola Chase
Manhattan presta 50 mila miliardi di lire. L’Opa (offerta
pubblica di acquisto) viene lanciata il 20 febbraio ‘99: 24 ore prima D’Alema,
scende in campo in favore degli scalatori, col celebre elogio dei "capitani
coraggiosi". La nuova rude "razza padana" così audace da sfidare
l’establishment dell’asfittico ed esangue capitalismo italiano.
La scalata si conclude in tre mesi. L’appoggio del governo e della Banca
d’Italia si rivela decisivo. Il 10 aprile, infatti, Bernabè - già allora
amministratore delegato - convoca un’assemblea straordinaria per deliberare
un’opa di Telecom sulla controllata Tim: una
mossa che manderebbe alle stelle il prezzo di Telecom, rendendo
impossibile l’assalto dei “capitani coraggiosi”. Per la validità
dell’assemblea, però, devono essere presenti i titolari di almeno il 30 per
cento del capitale sociale. Si registrano invece azionisti soltanto per il
28 per cento. Chi manca all’appello? Oltre a molti fondi internazionali, non
ci sono il Tesoro (maggiore azionista con il 3,46 per cento) e il fondo
pensioni della Banca d’Italia. Cioè gli azionisti pubblici. Perché?
Il direttore generale del Tesoro è Mario Draghi, futuro
governatore di Bankitalia. Vorrebbe partecipare all’assemblea. Ma
D’Alema gli ordina di astenersi. Il ministro Ciampi si
allinea. Draghi allora chiede al premier di mettere il suo ordine nero su
bianco. D’Alema prende carta e penna e invia al Tesoro una lettera
"d’indirizzo" attorno alla quale nasce un giallo: il documento scompare in
seguito dagli uffici del ministero. Guido Rossi, ex
presidente di Telecom, commenta acido: “Palazzo Chigi è l’unica
merchant bank dove non si parla inglese". E definisce "gravissima" la
condotta del governo.
La Telecom diventa un castello di scatole cinesi. Al vertice c’è
Hopa, la finanziaria di Gnutti in cui siedono Fininvest,
Unipol e Montepaschi: una specie di Bicamerale della finanza,
con Silvio Berlusconi alleato dei "rossi". Hopa
controlla Bell, che controlla Olivetti, che controlla
Tecnost, che ha la maggioranza di Telecom. A render ancora più
oscura la storia è la scarsa chiarezza sui veri soci di Bell. Il
presidente è Raffaello Lupi, fiscalista collaboratore del
ministro Visco. Ma il regno di Colaninno dura poco. Nel
2001 torna Berlusconi e Telecom cambia padrone. Arriva
Marco Tronchetti Provera. Nel luglio 2001, Colaninno, Gnutti e
Consorte vendono a Tronchetti il 23% di Olivetti-Telecom posseduto
da Bell, intascando una plusvalenza di 1,5 miliardi di euro. Alla faccia dei
tanti piccoli azionisti che restano a bocca asciutta. Per i magistrati di
Milano, Bell sottrae al fisco 680 milioni, ma poi la partita con le
tasse viene chiusa con una transazione di "soli" 156 milioni. Anche Consorte
e il suo braccio destro Sacchetti, hanno comunque da
gioire. Per loro alla fine dell’avventura di Telecom ci sono 43 milioni
ufficialmente versati come consulenze. A quel punto il problema del
gigantesco debito accumulato per la scalata passa nelle mani di Tronchetti.
Dal punto di vista politico il numero uno di Pirelli si mette a
posto con Berlusconi chiudendo prima ancora che nascessero tutti i programmi
de La7 che potevano far concorrenza a Mediaset (per questo vengono
dati molti milioni di euro a Gal Lerner e Fabio Fazio), sponsorizzando il
Milan con Pagine Gialle e tentando l’acquisto di Pagine Utili
(operazione che si concluderà con il pagamento di una penale a
Fininvest di 55 milioni di euro). Sul fronte dei bilanci si ricorre
invece alle vendite di società e partecipazioni e a una dissennata politica
commerciale condotta dall’ad Renato Ruggiero che sul momento aumenta i
ricavi, ma che poi farà perdere molta clientela.
Un esempio su tutti: Aladino il videotelefono spinto a suon di spot che poi
si rivelerà ben poco funzionante e spingerà chi può a cambiare gestore. Così
nel giro di pochi anni, mentre si continuano a distribuire dividendi, prima
Colaninno e poi Tronchetti vendono società su società, come l’assicurazione
Meie, l’Italtel, la Sirti, Telespazio,
l’operatore mobile venezuelano Digitel, la software-house
Finsiel, Tim Hellas, Alice France e altre partecipazioni.
Anche il patrimonio immobiliare scompare. A partire dal 2000, ma
l’accelerazione più grande si verifica con Tronchetti, a poco a poco tutto,
o quasi, passa a Pirelli Real estate. Un'operazione supportata da
perizie e pareri legali, ma da più parti criticata perché considerata in
evidente conflitto d'interessi. Mille-duecento cespiti cambiano così padrone
solo nel 2005-06. Alla fine Telecom incassa molti soldi, ma si
trova anche sul groppone una spesa per affitti di 400 milioni l’anno. Che
sommati agli interessi sull’indebitamento e al buco da ridurre, spiega bene
perché la società ogni anno trovi il denaro necessario per pagare i
dividendi e non quello per fare investimenti.
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Da il Fatto Quotidiano del 15 aprile |