La
crisi economico-finanziaria che ci sta conducendo verso
una recessione globale ha un unico pregio intellettuale:
ci ha costretti a mettere da parte concetti che eravamo
abituati a dare per scontati e ad utilizzare un nuovo
paradigma. Come spiega l’economista Nouriel Roubini in un
suo recente articolo, per fronteggiare l’attuale scenario
di recessione e deflazione, la politica monetaria
tradizionale è ormai un’arma spuntata: occorre ideare
soluzioni creative a problemi inediti. Eccesso di capacità
produttiva rispetto a consumi e ad acquisti di beni
durevoli in caduta libera, deboli pressioni salariali
indotte dalla crescente disoccupazione e caduta dei prezzi
delle materie prime (a cominciare dal petrolio) sono un
habitat ideale per il virus della deflazione (discesa del
livello dei prezzi).
L’aspettativa di ulteriori ribassi nei prezzi congela le
decisioni di consumo: chi compra un’auto oggi quando sa
che tra sei mesi potrà aggiudicarsela al 5% in meno? Così
non si compra sempre di meno, la produzione rallenta
ulteriormente, con perversi effetti circolari su prezzi ed
occupazione. Lo scorso 29 ottobre il FOMC (Federal Open
Market Committee, braccio operativo della Fed) ha tagliato
il tasso sui Fed Funds per la nona volta dall’inizio della
crisi dei subprime, portandolo all'1% (nell’estate del
2007 era 5,25%). In effetti, mercato monetario, affogato
nella liquidità messa a disposizione dalla Fed, esprime
oggi tassi prossimi allo zero.
Con tassi di interesse nominali a breve prossimi allo
zero, la deflazione porta i tassi reali (tassi nominali
meno livello di inflazione) a livelli positivi: supponiamo
infatti di acquistare oggi un oggetto che vale 100 euro,
attraverso un prestito ad un anno il cui tasso, per i
motivi sopra esposti, è zero; se nell’anno che intercorre
tra l’accensione del prestito e il suo rimborso i prezzi
sono scesi del 10%, ci troveremo a dover rimborsare degli
euro il cui potere di acquisto si è accresciuto di un
decimo. Il che equivale a dire che la deflazione, in un
contesto caratterizzato da tassi vicini allo zero,
corrisponde ad un livello di tassi di interesse pari a
quello del tasso di deflazione, cosa che influenza
negativamente consumi ed investimenti.
Inoltre, l’aumento del potere di acquisto del denaro
prodotto dalla caduta dei prezzi incrementa il valore
reale del debito assunto in precedenza: il fenomeno è
particolarmente grave negli Stati Uniti, dove i privati
hanno fatto un uso spregiudicato del credito (carte di
credito e ai finanziamenti al consumo). La recessione
associata alla deflazione, insomma, moltiplica il numero
delle famiglie e delle aziende in bancarotta.
Se i tassi a breve si mantengono prossimi a zero, i tassi
reali tendono a mantenersi elevati, in parte per via della
deflazione, in parte a causa dell’esplosione dei margini -
anche su prenditori di fondi con un buon merito di credito
- ed in parte ancora a causa dell’irripidirsi della curva
dei tassi (significativa differenza tra tassi a breve e
tassi a lungo). Ora, se è vero che le autorità monetarie
si stanno facendo in quattro per far piovere liquidità sui
mercati, per varie ragioni questo fiume di denaro non
riesce a circolare: le banche, infatti, prendono in
prestito fondi dalla Fed senza prestare a loro volta ad
altre banche, non essendo sicure che esse siano in grado
di onorare i propri debiti.
Inoltre, le sole società con buon rating (“investment
grade”) riescono a finanziarsi sul mercato (ad esempio con
le “commercial paper”, cioè BOT emessi da privati); gli
intermediari finanziari non bancari, che hanno comunque
disperato bisogno di liquidi, non hanno accesso alle linee
predisposte dalla banca centrale; infine, per le
operazioni di cartolarizzazione dei crediti al consumo non
assistiti da garanzia, oggi praticamente non esiste un
mercato.
Si rendono dunque necessarie politiche pubbliche
particolarmente creative ed eterodosse, quali ad esempio
convincere il mercato che i tassi a breve resteranno a
zero per lungo tempo, in modo che aspettative di tassi
stabilmente bassi influiscano anche sui tassi a
medio-lungo; comprare sul mercato titoli di stato con
scadenze molto lunghe, per alzarne il prezzo e quindi
abbassare il rendimento; comprare mutui o prodotti
strutturati costruiti sulla base di mutui ceduti;
costringere Freddie Mac e Fannie Mae a garantire più mutui
di quanto facciano ora; (perfino!) agire direttamente sul
mercato azionario, influenzando così i margini che
esprimono il merito di credito (credit spread); spingere
il dollaro al ribasso, mediante dichiarazioni pubbliche
mirate e/o attraverso linee di credito reciproche con le
altre banche centrali, a rischio però di ritorsioni da
parte delle altre nazioni verso cui si finisce per
esportare deflazione.
In ogni caso, per scongiurare i rischi della deflazione, è
necessario agire in modo veloce e determinato, continuando
a sostenere e magari anche a nazionalizzare le banche,
spingere sulla spesa pubblica per compensare i consumi in
caduta libera, e condonare fette importanti del debito
assunto da privati divenuti poi insolventi. Tutte queste
soluzioni “estreme” suonano eretiche, per il costo immenso
che implicano e soprattutto per la quantità di dilemmi
filosofici sul significato di “Stato” e su quello di
“mercato”: nondimeno sono inevitabili. A meno che qualcuno
non abbia idee migliori…
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