Le cosiddette "nuove BR" non possono portare indietro di
trent'anni il nostro paese, perché oramai palesemente in conflitto con
l'evolversi sociale e politico dei tempi. I terroristi di oggi sono dentro ma
contro il sindacato, dentro ma contro il movimento.
A differenza di quanto generalmente si usa fare da parte della destra, è bene
essere garantisti sempre, non a corrente alternata. Dunque vanno sempre usati i
condizionali e attese risultanze certe. Nel caso dell'inchiesta sfociata in
numerosi arresti a Milano, Padova e Torino, dati il ritrovamento di armi e le
intercettazioni, si può comunque assumere che qualche riscontro vi sia già
stato, anche se ampiezza, contorni effettivi e singole responsabilità rimangono
da definire. Peraltro, personalmente non trovo mai motivi di giubilo quando una
persona finisce in carcere, sia essa innocente oppure colpevole.
Ciò detto, l'ampia operazione antiterrorismo di lunedì qualche riflessione
comunque la impone, anche se la prima sensazione è di irrealtà. Un pò come
quelle notizie che, a metà degli Settanta, raccontavano di alcuni soldati
giapponesi, come Hiroo Onoda e Shoichi Yokoi, ritrovati in qualche isola delle
Filippine, ancora armati e inconsapevoli del fatto che, trent'anni prima, la
guerra era terminata. Pallidi e allucinati fantasmi di un'epoca che non c'era
più.
Così questi neoterroristi appaiono ombre remote di un Novecento terminato con la
caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda. Fotocopie sbiadite di
un violento conflitto sociale che ha segnato l'Italia degli anni Settanta.
Maldestri, arbitrari e solitari epigoni di quel movimento che nel 1977 scosse
fin nel profondo le certezze di un sistema politico sclerotizzato e incapace di
ascolto. E che, infine, finì schiacciato nella morsa del "combinato disposto"
della repressione e delle BR, con il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Perché
è questo, sempre, l'effetto dell'estremismo armato: quello di mettere in
difensiva i movimenti, di prestare il destro alla messa in mora del conflitto
sociale.
Parlare di "nuove BR" è, in certo senso, filologicamente scorretto. Queste BR
discendono da quelle, e con qualche legittimità se ne considerano figlie e
nipoti. Non c'è continuità fisica, c'è continuità politica e ideologica. C'è
continuità nel riferirsi, pure indebitamente, a una classe operaia che allora
era effettivamente soggetto generale, ma che oggi non lo è più e della quale ci
si ricorda solo grazie a qualche fischio a Mirafiori. C'è continuità nel
ritenere la lotta armata strumento di liberazione dall'oppressione, incuranti
del fatto che, invece, proprio l'esperienza degli anni Settanta ne ha dimostrato
sino in fondo l'errore e anche l'orrore.
Queste BR, esattamente come le precedenti, sia pure in sedicesimo, sono dentro
il sindacato ma contro il sindacato, sono dentro i movimenti e contro i
movimenti, dei quali - povere di senso della realtà e delle proporzioni - si
considerano "concorrenti". Sono figlie del mito della violenza intesa come
levatrice della storia e come palingenesi sociale. Ma soprattutto sono figlie di
un estremismo politico che continua a esercitare un certo grado di fascinazione
in un ambito certo più largo dei soli "antagonisti".
Solo due mesi dopo la uccisione di suo marito da parte dei brigatisti, avvenuta
nel marzo 1985, Carol Beebe Tarantelli volle entrare nel carcere di Rebibbia,
assieme al senatore socialista Gino Giugni, anch'egli ferito dalle BR, per
discutere con noi, con i detenuti politici dell'area omogenea. Un gesto di
grande nobiltà, che avvicinò la sconfitta definitiva di quella lotta armata, ben
più di tanti arresti. Subito dopo dichiarò: "Ho detto a questi detenuti che ci
unisce un pezzo di storia; che io ho fatto un percorso simile a quelli di loro
che c'erano nel '68. E che la mia parte sovversiva l'ho conosciuta anch'io.
Un'altra cosa ho voluto dire loro, quando si ostinavano a definire la morte di
Ezio "un barbaro assassinio": che non era giusto parlarne così, perché è barbaro
solo ciò che sta al di fuori di noi, quello che ci è del tutto estraneo. Mentre
purtroppo la lotta armata non è che l'espressione più estrema di qualcosa che
ben conosciamo, l'estremismo".
Questa piccola verità si continua a non vedere e anzi spesso a negare. Ma così
facendo non si arriva a capire e a contrastare quei fenomeni, ci si limita a
esorcizzarli. Inevitabile, poi, che si riproducano. In numeri sempre più
piccoli, in modo sempre più isolato. Ma con qualche pericolosità, come nel
recente passato hanno dimostrato gli omicidi Biagi e D'Antona. Difendere la
sinistra, i movimenti, il sindacato da quelle contaminazioni presuppone un
dibattito aperto e approfondito, non la politica dello struzzo o la timidezza di
fronte alle sempre possibili strumentalizzazioni. Non basta archiviare i miti
del Novecento in un cassetto, o in un cestino della spazzatura, se prima non li
si è, per davvero, sviscerati. Perché in quel caso rispunteranno sempre fuori:
arbitrariamente, malamente, ma inevitabilmente. In ogni circostanza, il
revisionismo storico è sempre facilitato dalle reticenze, come ci ha mostrato da
ultimo il dibattito sulle foibe. Mentre la sinistra dovrebbe riscoprire la forza
di quello slogan che diceva: "La verità è sempre rivoluzionaria".
Pietro Ichino, in una lettera aperta ai brigatisti, nel 2003 scrisse:
"Guardiamoci negli occhi". Lo stesso dovrebbe aver coraggio di fare la sinistra:
riconoscere quei fenomeni, di ieri ma in qualche modo anche di oggi, come figli
propri. O almeno come figliastri. Invece, ancora persiste il riflesso pavloviano
di considerarle Brigate "sedicenti" rosse, o fascisti provocatori. Si tratta di
un parente, certo lontano, con il quale magari non ci si parla più da tempo, ma
che ha letto gli stessi libri, frequentato gli stessi luoghi, partecipato alle
stesse manifestazioni, agli stessi miti e agli stessi riti, compreso quello
della cultura del nemico, dell'odio di classe che ancora qualcuno si ostina a
riproporre, salvo nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso.
Ha detto bene in quest'occasione Guglielmo Epifani: "Quegli anni sono ormai alle
spalle, quel periodo non torna". Occorre infatti avere memoria e conservare il
senso delle proporzioni, evitando allarmismi, enfatizzazioni e anche
strumentalizzazioni. Dal 1969 al 1987 furono ben 14.591 gli atti di violenza
politica e di lotta armata. Nel 1979, anno di maggior virulenza, furono 2.513,
una media di 7 al giorno. Le organizzazioni che li rivendicarono furono ben 610.
Ma come diceva un tipo con la barba nato a Treviri, nella storia la tragedia
tende a riproporsi come farsa. E anche le farse possono essere laceranti e
sanguinose.
Sergio Segio
aprileonline.info
Nota:
Sergio Segio è stato tra i fondatori di Prima linea, dopo aver scontato la
sua condanna a 22 anni è impegnato da molti anni nel volontariato,
particolarmente sui problemi del carcere, l'esclusione e le tossicodipendenze.
Lavora con il Gruppo Abele. Dal 1997 al 2001 ha curato le edizioni dell’Annuario
Sociale. È ideatore del Rapporto sui diritti globali che cura per Cgil,
Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, Arci, Legambiente e
Antigone. Nel 2003 gli è stato conferito il Premio internazionale all’impegno
sociale «Rosario Livatino». Ha promosso e diretto le riviste «Narcomafie» e «Fuoriluogo».
Collabora con varie testate, tra cui il settimanale «Vita» e il quotidiano «la
Repubblica».
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