La
certezza di codici è sempre stata la
premessa inutile delle loro diverse
interpretazioni. Un reato, ad esempio, lo
è sempre e comunque, indipendentemente dal
ruolo di chi lo commette? A giudicare
dall’inchiesta che la Procura di Roma ha
aperto contro Enrico Deaglio, pare proprio
di no. Il direttore di Diario,
infatti, nello spazio di un
interrogatorio, si è visto trasformato da
“persona informata dei fatti” a persona
“iscritta nel registro degli indagati”. Un
tempo era conosciuta come “il porto delle
nebbie”, per la sua capacità
d’insabbiamento di ogni inchiesta che
lambisse il potere politico. Oggi, la
Procura di Roma, toglie la polvere dal
fascistissimo Codice Rocco e ripropone con
furore l’articolo 656, che definisce e
sanziona il reato di “diffusione di
notizie false, esagerate e tendenziose,
atte a turbare l’ordine pubblico”. Pena
prevista? Trecentonove euro di ammenda nel
migliore dei casi, fino a tre mesi di
reclusione nel peggiore.
Uno si chiede: che cosa mai avrà detto
Deaglio per giustificare un così repentino
cambio del suo status giuridico
relativamente all’inchiesta? Nulla di più
- anzi molto di meno - di quanto da sei
mesi va dicendo Silvio Berlusconi e il suo
seguito vociante. Cioè che le elezioni
sono state macchiate da brogli o,
comunque, da operazioni poco trasparenti.
Viene voglia di chiedere alla Procura:
perché se lo dice Berlusconi è lecito e se
lo dice Deaglio è un reato?
La Procura sostiene che il calcolo finale
nell’attribuzione dei voti viene fornito
dalla Cassazione che lo effettua sulla
base del cartaceo; dunque, l’elaborazione
elettronica non risulterebbe determinante.
Intanto va detto che la Cassazione
effettua un controllo a campione e non
totale; poi, anche dove si dimostrasse che
il risultato dell’esame della Corte sia
stato scrupoloso e corretto, questo
comunque non eliminerebbe i tentativi di
broglio che Deaglio denuncia. Essi infatti
si riferiscono esclusivamente
all’elaborazione elettronica dei dati del
Viminale, step precedente alla lettura
finale. E la Procura, mentre ritiene le
denunce di Deaglio “turbativa dell’ordine
pubblico” in quanto prive di riscontri
probatori, procede con una denuncia ai
suoi danni senza nessuna indagine che ne
certifichi - anche con l’avallo di perizie
all’uopo - l’eventuale strumentalità.
Insomma, la Procura riceve una notizia di
reato ed apre una inchiesta. Poi, invece
di promuovere gli accertamenti istruttori,
denuncia il denunciante. Perché?
Noi non abbiamo riscontri probatori per
condividere o meno la tesi di Enrico
Deaglio; però, da giornalisti, abbiamo
l’impertinenza di porci domande e anche
quella di dubitare delle risposte,
soprattutto quando appaiono in tutta
evidenza attestati di fede politica allo
stato puro.
Deaglio racconta i lati oscuri di quelle
ore seguite al voto. Racconta che alcune
evidenti anomalie sono occorse nelle
operazioni di spoglio delle schede
elettorali. Sostiene che un software
potrebbe aver truccato i dati
dell’elaboratore dati e, aggiunge, la
conferma starebbe nell’evidente anomalia
nei conteggi relativi alle schede bianche,
spaventosamente in calo rispetto a tutte
le consultazioni passate della storia
della Repubblica ed anche in quelle delle
successive amministrative. Secondo il
giornalista, il software avrebbe
trasformato la stragrande percentuale di
schede bianche in voti a Forza Italia.
Vero o no, resta comunque l’evidenza di
una anomalia statistica confermata da
tutti i tecnici del settore. Qualcuno sa
spiegare il perché?
Settore che si è visto dileggiare dopo che
per anni era stato osannato, giacché per
la prima volta, tutti - ma proprio tutti -
gli istituti di sondaggi hanno
clamorosamente sbagliato (e nelle medesime
percentuali) le previsioni del voto finale
e quelle relative al partito del
Cavaliere. Si dirà: ma i sondaggi non sono
che proiezioni statistiche su campione.
Certo, peccato solo che fino ad oggi
abbiano sempre dimostrato una robusta
attinenza tra previsioni e risultati
confermando che, se non sono scienza, non
sono nemmeno fantascienza. E, si vorrà
ammettere, sempre in ordine alle anomalie,
che il ritardo enorme nelle procedure di
scrutinio fu una novità assoluta rispetto
al passato. Aspettiamo spiegazioni.
Ma c’è di più e noi, sommessamente,
domandiamo: è vero o no che la società
fornitrice del software per
l’elaborazione dei dati per il Viminale
vede al suo interno il figlio dell’allora
ministro dell’Interno ed esponente di
Forza Italia Beppe Pisanu? Non si
intravede nessuna stonatura? Attendiamo
risposte.
E chi e che cosa ha spiegato quale ragione
ha spinto l’allora ministro dell’Interno a
recarsi per almeno due volte, con lo
spoglio delle schede in corso,
nell’abitazione privata di Silvio
Berlusconi? Attenzione, non era la visita
di un ministro al Capo del Governo, cosa
comunque inopportuna in quei momenti: era
la visita del garante dell’imparzialità
delle istituzioni ad uno dei due
candidati, precisamente il “suo”
candidato. Per dirsi cosa? Oggi Pisanu
chiede le scuse. Non appena spiegherà cosa
lo portò ripetutamente a casa di
Berlusconi mentre il Viminale controllava
i dati, vedremo se scusarci. Fino ad oggi
non l’ha mai fatto. Anche qui, restiamo in
attesa. Anche se, giusto poche ore fa, il
ministro Amato, successore di Pisanu, una
risposta indiretta a molti quesiti l'ha
inaspettatamente data. "Abbiamo deciso di
fermare la macchina del voto elettronico -
ha spiegato - perchè il voto personalmente
espresso è meno facile da taroccare e
soprattutto non si possono inserire
software ". Excusatio non petita,
si direbbe. Al momento ci limitiamo a
rilevare la tempistica della successione
degli eventi e restiamo in attesa di
risposte.
C’è poi un secondo aspetto, stonato
anch’esso, della vicenda: è rappresentato
dalle dichiarazioni degli esponenti del
centrosinistra che oscillano tra la
granitica certezza della regolarità dello
spoglio, fino alle evidenziazioni
allarmate delle eventuali conseguenze
politiche di un possibile riconteggio
delle schede. Tralasciando la banale
osservazione per la quale gli eletti
dovrebbero tacere di fronte ad eventuali
dubbi sulle procedure che li hanno eletti
(se non altro per buon gusto, oltre che
per trovarsi in presenza di un palese
conflitto d’interessi), sono le
considerazioni politiche che risultano
insopportabili. Perché il quadro politico
non può prescindere dal rispetto delle
leggi e dal dettato costituzionale ed
eventuali anomalie nelle procedure del
voto non possono che essere chiarite
attraverso un’inchiesta, non con una
chiusura politica della stessa? Meglio,
molto meglio, sarebbe stato chiedere
rapidamente l’avvio di tutte le azioni
destinate a fare chiarezza, dal momento
che la legittimazione dell’investitura
popolare non può che essere come la moglie
di Cesare: al di sopra di ogni sospetto.
Le denunce e le ipostesi sottostanti che
Deaglio formula possono essere
condivisibili o meno, anche se pongono
domande alle quali ancora non giungono
risposte. Ma se si ritengono “politiche” -
e perciò faziose ed inconsistenti, prive
di fondamento sotto il profilo probatorio
- si può rispondere in vari modi, tranne
che con una “diversa” lettura, anch’essa
chiaramente “politica”, della vicenda.
Tanto meno con la gendarmeria. Se servono
prove per denunciare, servono a tutti,
anche alla Procura.
Il risultato di questa vicenda è che il
giornalismo investigativo - già da decenni
in crisi di vocazioni - viene picconato,
forse definitivamente. L’inchiesta
giornalistica finisce sotto quella
giudiziaria. Il cosiddetto quarto potere
se la vede da solo contro gli altri tre.
Il messaggio arriva forte e chiaro: come
nei decenni passati, le denunce politiche
e sociali vengono affrontate come una
minaccia all’ordine costituito. Dunque
muovere denunce contro il Palazzo è
vietato: trattasi di zona franca,
inviolabile. Si difende in tutti i modi da
intrusioni non richieste perché è il
Sistema che analizza, giudica e assolve se
stesso.
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