I boss camorristi hanno scoperto la Cina prima di tutti. E creato
ambasciate e società miste. Che dal porto di Napoli invadono di merci
l'Europa
E si racconta che i cinesi sono i napoletani d'Oriente. Nel gioco delle
similitudini impossibili o persino dei modelli folkloristici esportati. E
pare sia proprio così: la convivialità, la socievolezza, la simpatia
d'impatto. Sembrano le stesse. Un'immagine che elimina gran parte dei
pregiudizi, anche in una terra dove basta avere gli occhi leggermente a
mandorla per essere definito 'o' cinese'. Eppure la diffidenza della
comunità cinese sul territorio napoletano è enorme. Una comunità silenziosa,
ma che è capace di creare un quasi invisibile impero, molto più invisibile
che a Prato piuttosto che a Roma o nel dedalo milanese di via Paolo Sarpi.
Quelle sono le Chinatown che si lasciano vedere, ma è a Napoli che si trova
il cuore dell'impero.
Il primo rapporto tra una certa economia cinese e l'Occidente non sono i
patti, non sono le cene, non sono neanche i contatti diplomatici. Sono i
porti a fare il legame. Non è un caso se i colossi del settore dai
grattacieli di Hong Kong adesso vogliono fare compere da noi: sognano di
mettere le mani sui moli di Gioia Tauro, di Palermo o di Augusta. Ma Napoli
è stato il primo porto a diventare completamente cinese, una vera e propria
colonia economica, colonia di investimento ovviamente perché di cittadini
cinesi non se ne vedono molti.
Il risultato è che non v'è prodotto che non passa per il porto di Napoli: è
il punto finale dei viaggi delle merci cinesi, vere o false, originali o
tarocche. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore
dell'import tessile dalla Cina. Ma bisogna fare attenzione ai dati: perché
in realtà oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È
una stranezza complicata da comprendere, ma le merci nel porto di Napoli
riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere
costose al cliente pur essendo scadenti. Basta un tratto di penna sulla
bolletta d'accompagnamento per abbattere i costi e l'Iva radicalmente.
La merce deve arrivare nelle mani del compratore subito, presto, prima che
il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe ospitare un controllo.
Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene
recapitato a mano dal postino a domicilio. È come se nel porto di Napoli si
aprissero dimensioni temporali inesistenti, nei suoi 1.336.000 metri
quadrati per 11,5 chilometri il tempo ha dilatazioni uniche.
Proprio in questi pontili opera il più grande armatore di Stato cinese, la
Cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in
gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la Msc,
che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra.
Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire
la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di
banchina, 130 mila metri quadri di terminal container e 30 mila metri quadri
esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito nel centro
campano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente
dalla Cina: 1 milione 600 mila tonnellate. Quella registrata. Perché almeno
un altro milione passa senza lasciare traccia.
Nel solo porto campano, il 60 per cento della merce sfugge al controllo
della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono
50 mila contraffazioni di documenti: il 99 per cento dei materiali che si
infilano in questo buco nero è di provenienza cinese e si calcolano, con
riferimento soltanto a questa dogana, 200 milioni di euro di tasse evase a
semestre.
Il trucco con cui entra la merce non è complicato, e basta passeggiare
qualche settimana la mattina presto tra i container che vengono svuotati o a
volte controllati per comprenderne il congegno. Tutto arriva e parte con gli
Iso ossia i container. Iso sta per International Organization for
Standardization: ogni Iso è regolarmente numerato e registrato con una
formula: quattro lettere (delle quali le prime tre corrispondono alla sigla
della compagnia proprietaria) - sette numeri - un numero finale. Spesso però
ci sono Iso con la stessa identica numerazione. Così un container già
ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Semplice, efficacissimo,
milionario.
Poteva sfuggire un'occasione del genere ai signori della camorra
imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di
Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza
sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha distanziati di brutto: i
padroni di Secondigliano e guerrieri di Scampia sono stati i primi.
Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine fotografiche,
videocamere. Lo fecero dieci anni prima che Confindustria spingesse gli
imprenditori italiani ad andare laggiù. Un rapporto della Direzione
antimafia campana mette insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi
Marco Polo partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a
Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore romano', aveva aperto un
negozio con giacche di alta sartoria.
La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito. Nelle fabbriche
cinesi si produceva per conto delle migliori marche del mondo, bisognava
saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio.
Un'industria che produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può
fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo stesso marchio. Può
produrre il medesimo modello, con l'identica qualità tecnologica mettendoci
sopra un logo differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan.
Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi. Ricche grazie
alla droga e agli investimenti nel tessile, nel turismo e nell'edilizia.
Potenti grazie alle batterie di killer ragazzini e di ancor più giovani
vedette. Rapide come imprenditori del mercato globale.
Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i camorristi molto
prima che per gli industriali italiani. Tutto a partire da quelle macchine
fotografiche digitali che hanno 'monopolizzato', secondo le ricostruzioni
dei magistrati, il mercato dell'Europa Orientale: la famosa Canon Matic,
fatta produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne gestiscono anche
l'importazione.
Poi sulla stessa rotta e con lo stesso sistema sono arrivati televisori
giganti al plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni griffati.
Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche che li realizzano per i
grandi marchi, fatti arrivare a Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova
Europa.
Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la predilezione
della camorra per le economie del socialismo reale. I clan legati al boss
Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere
piede nell'allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla
frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte ha raccontato che i mafiosi
russi hanno impedito l'ingresso degli investimenti napoletani. Altra
sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi
il territorio tutto diventa roba loro.
Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del Vesuvio. Ottaviano,
Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte
nella storia adesso cambiano vita per l'ennesima colata. È lì che si riversa
l'imprenditoria tessile venuta dall'Asia. Tutto quello che accade nelle
comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni,
le qualità di produzione crescenti, e anche i primi assassinii.
La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A Napoli fu uccisa la
prima 'testa di serpente' individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato
quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra
connazionali a Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze
d'alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano così perché
importano manodopera. Seguire una testa di serpente significa intravedere
una sorta di venditore di bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche.
Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada
dell'imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le teste di
serpente spesso però barano.
Prendono soldi per portare un numero di persone e si presentano con la metà
degli uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma
le scuse con la camorra non funzionano e le teste di serpente spesso
rischiano la punizione finale quando barano. Garantiscono a imprenditori un
quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da
tutti i committenti per un'ordinazione di manodopera, cento operai per ogni
fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire fra
tutte le fabbriche. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé
una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha
barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.
Ma non ci sono solamente schiavi. Quella è un'altra immagine che rischia di
diventare passato, archeologia industriale come molti dei luoghi comuni
sull'economia asiatica. Al quartiere Sanità qualche tempo fa avevo
incontrato una ragazzina napoletana che si era messa a lavorare in una
fabbrica cinese. Raccontò il suo nuovo mestiere dicendo: "Mi sono messa a
fare la cinese". Un tempo il quartiere Sanità era il regno delle fabbriche
dei guantai, raccontavano che persino i guanti della principessa Sissi erano
stati prodotti in questi vicoli. E ora lentamente arrivano i cinesi,
riescono a ridare energia a produzioni di qualità che in Italia sono
scomparse per l'aumento del costo della manodopera sentito anche nel lavoro
nero.
E per la prima volta in Italia accade la rivoluzione: cittadini italiani
iniziano a lavorare per i cinesi, nelle loro fabbriche, e i cinesi stanno
cercando con i loro prezzi di far decollare la qualità dei manufatti. Gli
imprenditori arrivati dall'Asia cercano maestri per formare i loro artigiani
goffi. Pagano meglio dei padroni di Secondigliano per rubare l'arte a quelle
maestranze che nei laboratori di Arzano tagliano gli abiti di prima scelta.
Capolavori dell'italian style disegnati da sarti famosi e finiti poi addosso
a stelle di prima grandezza. Come quando Angelina Jolie comparve sulla
passerella degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo.
Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani,
contendendosele, offrono alle star.
Quel vestito l'aveva cucito un mastro napoletano, Pasquale, in una fabbrica
in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale
aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli Usa. Si ricordava bene
quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il
taglio del collo, i millimetri dei polsi. Ed era proprio Pasquale quello che
serviva ai cinesi per fare il grande salto. Per diventare più bravi degli
italiani. Pasquale insegnava la qualità. Lo usavano per insegnare alle sarte
venute dall'Asia. Lezioni clandestine, nascosto nel cofano come un
latitante. Mentre al volante c'è un Minotauro con la pistola tra le gambe,
perché così si spara più in fretta. Ai camorristi non piace che i cinesi gli
rubino l'arte. Mentre invece i clan si sono messi a fare i cinesi. Copiano i
loro sistemi economici che danno vita a consorzi di piccole imprese, con
gare al ribasso nei costi e nei tempi pur di accaparrarsi una commessa. Con
vincoli aperti dal prestito a usura e cementati dalla minaccia. Con
lavoranti praticamente senza diritti. È il segreto dell'oro di Las Vegas, la
zona industriale nata dal nulla nella periferia nord della metropoli.
E oltre all'import i camorristi fanno l'export. Lo fanno i clan del
Casertano. I feroci in grado di monopolizzare il mercato di rifiuti.
Esportano spazzatura, morchie così tossiche che nemmeno i criminali vogliono
averle in casa. Al porto di Napoli sono stati trovati, come segnala
Legambiente nei dossier 2004 e 2005, container zeppi di rifiuti in partenza
per la Cina. Materia da intombare in Cina. Un affare florido e quasi
inesplorato dagli investigatori: la nuova frontiera di un business che non
conosce confini né scrupoli. Ma soltanto guadagni.
Roberto Saviano
Fonte: http://espresso.repubblica.it/
Link
05.10.2006
Numero 39 Anno 2006
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