L’attuale
dibattito sullo stato dei conti pubblici si concentra per lo più
sull’analisi di breve periodo e solo in qualche caso si spinge a indicare
possibili strategie per la nuova legislatura.
Uno scenario ventennale
In questo breve intervento intendiamo fornire uno
scenario previsivo più che ventennale dello stato delle nostre finanze
pubbliche con l’intento di individuare i vincoli che la politica si
troverà ad affrontare nei prossimi anni, e di fornire indicazioni, sotto
forma di avvisi, a coloro che si apprestano ad affrontare il mare aperto
delle scelte di policy del prossimo futuro.
A tal fine utilizzeremo il modello del Cer di lungo periodo: contempla la
completa specificazione sia delle voci di domanda che quelle di offerta,
dalla cui interazione scaturiscono endogenamente i prezzi dei beni e i costi
dei fattori produttivi. Senza entrare nel dettaglio dei meccanismi di
funzionamento del modello, sottolineiamo solamente che uno dei pregi che lo
caratterizzano è il suo fondamento demografico: la stima delle
grandezze macroeconomiche e di finanza pubblica è coerente con le previsioni
della popolazione italiana dell’Istat. La nostra simulazione perciò
incorpora esplicitamente il calcolo degli effetti reali e dei costi
economici dell’invecchiamento della popolazione.
Iniziamo valutando (si veda il grafico) l’evoluzione dei due indicatori
principe della finanza pubblica: il disavanzo e il debito. Dall’osservazione
di queste voci emerge il primo, e forse meno inatteso, avviso: il
deterioramento dei saldi di finanza pubblica è strutturale.
Secondo la nostra previsione, a legislazione vigente (si veda la tavola),
l’indebitamento in percentuale del Pil rimarrebbe intorno al 4,7 per cento
fino al 2010, nel secondo ventennio migliorerebbe fino al 4 per cento per
poi tornare a peggiorare, raggiungendo il 5 per cento del Pil nel
2030. Tali livelli non consentono ovviamente una riduzione e nemmeno una
stabilizzazione del rapporto debito/Pil che nello stesso periodo si
porterebbe dall’attuale 108 per cento al 125 per cento.
La contabilità del debito consente di scomporre il dato e di verificare che
il suo andamento non è imputabile alla bassa crescita, la cui stima,
date le condizioni demografiche sottostanti, è sin troppo ottimistica;
nemmeno è imputabile a un eccessivo onere per il servizio del debito che,
sia nella sua rappresentazione media che in quella marginale, resterebbe
stabile e contenuto in tutto il periodo di simulazione. La crescita del
debito è dunque imputabile all’avanzo primario, e proprio
dall’analisi di questo saldo si delineano gli spunti per due avvisi.
Via fiscale preclusa
Innanzitutto, emerge che lo spazio per manovre di
risanamento via entrate è ridotto. Questa valutazione non riflette
una adesione ai precetti teorici di main stream. Deriva piuttosto
dalla considerazione che il grado di progressività del nostro sistema
impositivo determina automaticamente un incremento tendenziale delle
entrate totali in rapporto al Pil, che, con qualche approssimazione, viene
indicato nella tavola come "pressione fiscale". Quest’ultima dal 44 per
cento previsto per il 2006 crescerebbe ininterrottamente nel periodo di
previsione fino al 46,2 per cento, collocandosi quindi su livelli che
rendono difficile trovare il consenso necessario a ulteriori aumenti. Questo
ci permette di formulare il secondo avviso: la via fiscale al risanamento
risulterà sostanzialmente impraticabile, potendo essere utilizzata più per
operazioni di rimodulazione e di redistribuzione del carico fiscale che di
incremento dello stesso.
Se la via fiscale è sbarrata, le risorse necessarie per riportare sotto
controllo i conti pubblici dovranno perciò essere rintracciate dal lato
delle uscite della Pa. Proprio a questo riguardo elaboriamo il terzo
avviso.
Secondo la nostra simulazione, le spese della pubblica amministrazione al
netto degli interessi si manterrebbero sostanzialmente stabili intorno al 44
per cento del Pil per i prossimi quindici anni. Successivamente, il loro
livello aumenterebbe al 45,5 per cento del Pil entro il 2030. Una semplice
scomposizione delle spese complessive (al netto degli interessi) fra quelle
a "elevata sensibilità" demografica (pensioni e sanità) (1) e altre
spese mette in luce alcune tendenze rilevanti:
- la spesa per pensioni e sanità mostra un andamento
continuamente crescente che le porterebbe al 24,2 per cento del Pil nel 2030
– 2,5 punti percentuali in più rispetto al livello attuale;
- le altre spese resterebbero stabili intorno al 21-22 per cento del Pil per
i primi anni del periodo di simulazione; in seguito si avvierebbero a una
naturale discesa, che ne ridurrebbe la quota a fine periodo di circa un
punto percentuale di Pil.
Appare chiaro perciò che la dinamica ascendente delle spese è guidata dal
fattore demografico, mentre già di per sé le altre uscite mostrano una
tendenza al declino.
A questo punto le conclusioni potrebbero apparire banali. Ci preme,
tuttavia, sottolineare che date le dinamiche appena descritte sia che si
decida di intervenire sulle spese a trazione demografica sia che si decida
di intervenire sulle altre, tale contenimento non potrà essere perseguito in
termini di manovra di puro "taglio". Emerge, infatti, la necessità di
pensare a riforme di ampio respiro, che coinvolgano il ruolo e il
funzionamento dello Stato, e che seguano un progetto chiaro fin da subito.
Ci sembra cioè che sia giunto il tempo delle scelte forti, che siano sì
condivise, ma anche coraggiose e incisive. È evidente che una corretta
implementazione di queste riforme richiederebbe un margine adeguato di
tempo. Ma è proprio il tempo la risorsa che più di ogni altra è stata
intaccata dal fallimento della gestione economica della legislatura appena
conclusa.
(1) La previsione delle voci di spesa per le
pensioni e la sanità è coerente con le previsioni espresse dalla Ragioneria
generale dello Stato.


*Centro Europe Ricerche
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