Lo squilibrio dei conti pubblici, quasi dimenticato durante la campagna
elettorale, sta tornando prepotentemente nell’agenda politica.
Senza scorciatoie
La previsione della Relazione trimestrale di cassa (pubblicata venti giorni
fa), un disavanzo 2006 al 3,8 per cento del Pil, è stata già corretta dal Fondo
monetario internazionale che, con considerazioni tutt’altro che "peregrine",
stima un 4 per cento con un margine di errore che potrebbe portare al 4,25 per
cento. Tutto ciò dando per ampiamente realizzate le misure di correzione (quasi
28 miliardi, tra maggiori entrate e minori spese) previste dalla legge
finanziaria 2006. In effetti, un maggiore realismo nel valutare il successo di
queste misure, anche sulla scorta di quanto avvenuto negli ultimi anni,
porterebbe la stima del disavanzo almeno al 4,5 per cento. Il pericolo, insomma,
è che si ripeta nel 2006 la stessa micidiale sequenza di revisioni delle
previsioni che ha costellato tutto il 2005, quando dal 2,9 per cento della
Relazione trimestrale di cassa si è arrivati al risultato del 4,1 per cento. Il
2005 è stato un anno di record negativi per i conti pubblici: ha registrato il
livello più alto della spesa corrente primaria e quello più basso delle entrate
fiscali dal 1992. L’avanzo primario – il disavanzo al netto della spesa per
interessi - si è quindi azzerato e il rapporto tra debito e Pil è cresciuto per
la prima volta dal 1994.
La via di uscita da questa situazione passa necessariamente per la
ricostituzione dell’avanzo primario distrutto tra il 2001 e il 2005.(1)
Scorciatoie praticabili non ve ne sono. Non lo è l’ipotesi di abbattere in tempi
brevi il debito con la creazione di una holding cui trasferire cespiti di
proprietà pubblica per centinaia di miliardi. A questo proposito, la lettura del
recente rapporto della Corte dei conti sui risultati delle cartolarizzazioni è
istruttiva. Riguardo al patrimonio immobiliare, dall’esperienza di questi anni
si trae un duplice insegnamento. Da un lato, vendere effettivamente gli immobili
pubblici è un’operazione complessa e richiede tempo (l’insuccesso di Scip 2 che,
ricordiamo, valeva meno di 7 miliardi). Dall’altro, trasferire solo formalmente
la proprietà allettando gli acquirenti con un rendimento garantito è molto
costoso, ben più del normale servizio del debito (il 7,5 per cento l’anno per
l’operazione vendi e riaffitta realizzata attraverso il Fondo immobili
pubblici). Dalla gestione del patrimonio può venire un contributo – riprendendo
un programma di privatizzazioni (da Enel ed Eni alle società di proprietà degli
enti locali), ma anche valorizzando e mettendo a reddito il patrimonio
immobiliare e aumentando i proventi delle concessioni – alla riduzione del
livello del debito, che non potrà però essere risolutivo.
Un ministero dedicato
Per riportare la dinamica del rapporto tra debito e Pil su un sentiero
sostenibile è necessario intervenire sulle entrate e sulle spese per ricondurre
l’avanzo primario sui livelli della fine degli anni Novanta. Ciò richiede
innanzi tutto capacità di governo. Dal lato delle entrate, bisognerà nel medio
periodo recuperare almeno un punto di Pil di gettito, riparando ai danni della
stagione dei condoni e conducendo una incisiva azione di contrasto
dell’evasione. È un compito fondamentale che richiederà una buona dose di
autorevolezza politica e, perciò, un ministro interamente dedicato al compito.
L’integrazione tra Tesoro e Finanze può essere rimessa in discussione. Non ha
prodotto, in questi cinque anni, i vantaggi che ci si poteva attendere, essendo
le due amministrazioni nei fatti rimaste completamente separate. L’obiezione
principale – garantire l’unitarietà della rappresentanza della politica
economica italiana nelle sedi internazionali – può essere facilmente superata
prevedendo una delega al ministro del Tesoro. Del resto, l’assetto con un
ministro del Tesoro e uno delle Finanze è quello che ha guidato l’ingresso
nell’euro, senza dubbio il successo più importante della politica economica
italiana negli ultimi vent’anni.
Dal lato della spesa, è fondamentale che il Tesoro migliori la sua capacità
di controllo e monitoraggio dei flussi finanziari e delle caratteristiche reali
dei programmi pubblici. È necessario un rafforzamento del ruolo della Ragioneria
generale dello Stato come centro di raccolta delle informazioni e di
valutazione, anche nei confronti della finanza regionale e locale. La scommessa
della riduzione della spesa pubblica, che occorre riportare in relazione al Pil
verso i livelli di cinque anni fa, si gioca anche nell’amministrazione e nella
capacità di individuare tagli selettivi e realizzabili, che dovranno intervenire
sui meccanismi di formazione della spesa, abbandonando finalmente l’illusione
dei tetti finanziari e delle regole automatiche.
Il tempo a disposizione non è molto. A legislazione vigente, l’Italia non
rispetterà gli impegni presi nel luglio 2005 in sede europea (disavanzo al
3,8per cento nel 2006 e sotto il 3 per cento nel 2007). Così stando le cose,
sarebbe necessaria una manovra in corso d’anno per il 2006 per almeno mezzo
punto di Pil e, immaginando che il tendenziale 2007 non si discosti molto da
quello 2006, di una manovra per il 2007 per 1,5-2 punti. Si potranno, forse,
rinegoziare quegli impegni, ma occorreranno un assetto istituzionale e una
politica di bilancio ben più credibili di quelli del passato recente. Innanzi
tutto, un Governo il più presto possibile. Questo è l’interesse comune, di
entrambe le metà dell’elettorato.
Occorre poi migliorare la trasparenza dei conti pubblici italiani, che come
notava qualche mese fa il Fondo monetario internazionale, è "ben al di sotto
degli standard dei paesi industrializzati". È un problema complesso che richiede
un approccio sistemico, senza illudersi che la costituzione di un’Autorità
indipendente sui conti pubblici – una proposta che sta acquistando popolarità –
possa bastare a risolverlo. A monte c’è il problema della tempestività e qualità
dei dati di consuntivo, prodotti dall’Istat sulla base dei bilanci degli enti
pubblici. La volatilità dei dati di consuntivo è oggi eccessiva e a volte
riserva sorprese, come quella della revisione, dopo un anno, del consuntivo 2004
della spesa pubblica per consumi intermedi: da una diminuzione dello 0,3 per
cento a un aumento del 5,4 per cento rispetto al 2003. Qui va garantito il
massimo possibile di indipendenza dal Governo (intervenendo, ad esempio, sulle
modalità di nomina del presidente dell’Istat) e va attribuito all’Istat in
materia di redazione dei conti di tutte le amministrazioni pubbliche, incluse
quelle locali, un ruolo simile a quello che oggi svolge Eurostat nei confronti
dei singoli Stati nazionali.
La responsabilità della politica di bilancio – ovvero previsioni e programmi
per il futuro – deve restare, invece, interamente nelle mani dell’esecutivo e
del suo braccio operativo, la Ragioneria generale dello Stato. Vi è lo spazio
(e, anzi, la necessità) per un centro autorevole e indipendente di verifica
tecnica della politica di bilancio. Il luogo ovvio nel quale collocarlo resta
comunque il Parlamento, unificando i Servizi bilancio di Camera e Senato,
rafforzandoli in modo robusto anche con apporti esterni e garantendo un
effettivo status di autonomia dal Governo e dalla maggioranza parlamentare.
(1) Nella seconda metà degli anni Novanta l’avanzo è sempre oscillato tra il
4 e il 5 per cento del Pil, con una punta eccezionale, oltre il 6 per cento, nel
1997. Nel 2000 l’avanzo era ancora al 4,3 per cento. Ha iniziato a contrarsi a
partire dal 2001, a un ritmo compreso tra mezzo punto e un punto di Pil l’anno.
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