Questo Dpef dovrebbe essere vietato ai deboli di cuore. Mette addosso
una tristezza infinita. Rivela una preoccupante mancanza di idee da
parte di chi ha guidato il paese negli ultimi cinque anni. E conferma che
chi andrà al Governo dopo le prossime elezioni dovrà occuparsi innanzitutto
di rimettere in ordine i conti pubblici. Ma sarebbe sbagliato offrire
fin d’ora un alibi a chi governerà dal 2006 in poi. Governare sotto vincoli
di bilancio stringenti può anche offrire la spinta politica per attuare le
riforme. Si tratta di mettere alle corde chi ha posizioni di rendita, usando
proprio quel vincolo.
Un epitaffio
Un Dpef di fine legislatura serve a far il punto su quello è stato fatto
finora, e a impegnare il Governo da qui alla fine del suo mandato. Sul primo
punto, il quadro tracciato dal Dpef è deprimente. I quattro anni di Governo Berlusconi hanno visto
peggiorare tutti gli indici economici; la crescita del Pil è stata
fievolissima, lo 0,5 per cento in media d’anno, fino ad arrestarsi del tutto
nel 2005; il paese ha perso competitività e non ha saputo approfittare della
forte ripresa dell’economia mondiale dell’ultimo biennio; la quota delle
nostre esportazioni a livello mondiale si è ulteriormente ridotta, ed è
adesso di circa un punto più bassa che un decennio fa. Problemi che vengono
da lontano, ma che il Governo ha fatto ben poco per contrastare. Unico dato
positivo, la crescita dell’occupazione, ma pagata a prezzo di ulteriori
perdite di competitività e comunque in fase di decelerazione.
Sul secondo punto, il Dpef appare troppo reticente per impegnare chicchessia. Offre saldi di
finanza pubblica finalmente realistici, ma non dice nulla su come
intervenire: afferma, giustamente, che il risanamento dei conti può avvenire
solo con interventi strutturali sulle spese e che bisogna ridurre
evasione e sommerso, ma non prende nessun impegno esplicito in questo
senso. C’è poi un problema di credibilità; le indicazioni provengono da un
Governo che si è caratterizzato per una offerta di condoni mai vista, la
bozza di Dpef conteneva un secco "no alle una tantum" poi rimosso nel testo
finale, la Camera ha approvato un emendamento al ddl sulla competitività
(cui il Governo non ha sin qui voluto porre riparo) che introduce un condono
previdenziale addirittura in avanti, al 2005. Come credere poi a un Governo
sotto il quale la spesa corrente è cresciuta di circa due punti sul Pil e il
surplus primario, dopo le revisioni Eurostat, si è ridotto dal 4,5
per cento del 2000 allo 0,6 per cento del 2005? La cifra vera del
documento è il rinvio. L’aggiustamento sarà fatto, ma in maggior parte dal
2006 in poi, cioè dal Governo che sarà in carica dopo le elezioni. La spesa
pensionistica è in equilibrio, grazie a una riforma che entrerà (forse) in
vigore nel 2008, eccetera.
Il Dpef non rinuncia naturalmente ad avanzare anche proposte su orizzonti
più lunghi. Cinque le classi di interventi indicate come prioritarie: i)
opere pubbliche, ii) maggiore libertà d’impresa, iii) alleggerimento del
carico fiscale, iv) difesa del potere d’acquisto delle famiglie e v) qualità
della spesa. Tutto giusto: la domanda ovvia è però perché su queste cose non
si è intervenuti prima. Ma soprattutto le proposte appaiono ancora vaghe e
in via di definizione. Si percepisce una mancanza di idee; sembra di leggere
la confessione di chi, arrivato alla fine del suo mandato, ammette che si
deve ripartire da zero, senza saper bene cosa fare. È un epitaffio, questo
Dpef
Ma cosa potrà fare il prossimo Governo?
Ma un pregio almeno il documento ce l’ha. Quello di dire finalmente le
cose come stanno (riconoscendo che le CXassandre avevano ragione sui conti pubblici. Ammette anche che il
peggioramento dei conti pubblici non è addebitabile all’andamento
dell’economia: le tabelle del Dpef ci dicono, infatti, che il saldo primario strutturale (al netto del
ciclo) si è ridotto dal 2001 al 2005 di quasi un punto di Pil
Guardando in avanti, il quadro è fosco e opaco a dir poco. Se ci va bene,
finiremo con il 4,3 per cento di disavanzo nel 2005; a bocce ferme, e
pur assumendo una crescita a tassi sconosciuti negli ultimi anni (1,5 per
cento) per i prossimi cinque, riduzioni del personale della PA di circa
mezzo punto percentuale all’anno (con una incomprensibile diminuzione della
spesa di 3,5 miliardi nel 2006), e ignorando il dirottamento ai fondi
pensione del Tfr maturando per i pubblici dipendenti, siamo destinati a
veder crescere il nostro debito pubblico, ridurre il saldo primario a zero,
e ad avere un disavanzo vicino al 5 per cento del Pil.
Il Governo che verrà dovrà perciò lanciarsi da subito in un’operazione di
consolidamento strutturale del bilancio tra i due e i tre punti di Pil.
Certo, il miglioramento dei conti pubblici può essere ottenuto anche
rilanciando la crescita. Alcune delle riforme lasciate ai posteri da
questo Dpef possono aiutare. Ma è lo stesso documento a non offrire grandi
speranze. Comparando programmatico e tendenziale, si evince che queste
riforme pagano, al massimo, uno 0,1-0,2 per cento di Pil. E molte di queste
riforme sono politicamente (se non fiscalmente, come nel caso delle opere
pubbliche) costose. Perché mai il prossimo Governo dovrebbe dannarsi l’anima
per un misero decimale di Pil in più? Di qui la depressione. Quella
psicologica, prima ancora che economica, che accompagna la lettura.
L’ottimismo della volontà
Ma non è necessario rassegnarsi a un’altra legislatura grigia, di
stagnazione e conti pubblici in disordine. Il passato, anche recente, del
nostro paese, insegna che le riforme strutturali più importanti sono state
attuate proprio nei momenti più difficili, come all’indomani della crisi del
1992.
Un vincolo di bilancio che non può essere ammorbidito può essere una
chiave di volta, anziché un ostacolo, alle riforme. Tutto sta nell’usarlo
per mettere alle corde chi si oppone alle riforme in nome delle proprie
posizioni di rendita. Non è più tempo per gli egoismi; la colpevole
indulgenza nei confronti di evasori e rentiers non è più tollerabile
fiscalmente, un punto finalmente riconosciuto anche in questo
Dpef. Dalle professioni ai servizi, ci sono innumerevoli esempi dove
riforme di liberalizzazione, a costo zero, ma di grande impatto
sull’economia, potrebbero essere attuate.
Un vincolo di bilancio rigido impone di scegliere; invece di finanziare
tutte le opere pubbliche si tratta di individuare quelle che servono
davvero. Invece di una riduzione across the board delle spese
pubbliche correnti, si tratta di decidere quali ridurre e quali
aumentare. Bene che il
Dpef riconosca, sia pure ancora troppo timidamente, che
il tetto uniforme del 2 per cento non funziona ed è distorsivo. Le spese
da aumentare sono quelle che facilitano la necessaria ristrutturazione
industriale del paese, come un sistema finalmente moderno di sussidi alla
disoccupazione.
Un vincolo di bilancio rigido, accompagnato da dosi robuste di autonomia,
può far molto per aumentare l’efficienza di tutti gli enti collegati al
bilancio dello Stato; dalle università, dalla cui ripresa dipende il
futuro del paese, alle regioni che devono essere costrette a razionalizzare
la sanità e a liberalizzare il commercio, ai comuni che devono riformare i
servizi pubblici locali.
Basta avere le idee chiare e volerlo fare. Coraggio, politici.
Commenti presenti Data: 22-07-2005 14:38:00
Nome:
Riccardo Trezzi
Oggetto: L'uomo della strada. Messaggio:
Gentilissimo prof. Boeri,
con questo articolo Lei dimostra una spiccata sincerità, dote sempre più
rara. Sono un laureto Bocconi, attualmente iscritto alla facoltà degli
studi di Pavia (laurea specialistica).
Questo commento non desidera assumere l'ottica del buon economista,
piuttosto quella del comune cittadino.
Il Dpef è l'emblema non solo della situazione strutturale ma più in
generale della mentalità italiana.
Continuiamo a "tirare a campare", ad essere "equi-vicini per essere
equi-distanti", a "convergere parallelamente".
Cosi' basta mettere il naso fuori dal proprio orto per scoprire che in
alcune università mancano perfino i fondi per acquistare i gessetti, che
in alcuni ospedali le garze sono contate e cosi' via.. Sono certo Lei ne
sia consapevole.
Mi domando allora per quanto tempo ancora la sesta (settima) potenza
economica mondiale potrà "tirare a campare"? Per quanto tempo ancora la
sempre più pressante questione sociale sarà rimandata? Forse sono
eccessivamente pessimista ma anche il mio pessimismo è segno dei tempi.
Anche Lei ammetterà che il dottor Pangloss, in fondo, si sbagliava.
La ringrazio per la cortese attenzione.
Continuerò a seguirLa con attenzione.
Riccardo Trezzi.
Data:
19-07-2005 17:39:00 Nome: Paola Soccorso< Oggetto: Dpef Messaggio:
sono una laureata Bocconi ora impegnata in una tesi di
master sull'elasticità dei saldi strutturali rispetto all'output gap.
Leggevo il suo articolo uscito ieri su lavoce e vorrei chiederle alcune
spiegazioni. Scrivete (lo riporto per praticità) che il Dpef "Ammette
anche che il peggioramento dei conti pubblici non è addebitabile
all’andamento dell’economia: le tabelle del Dpef ci dicono, infatti, che
il saldo primario strutturale (al netto del ciclo) si è ridotto dal 2001
al 2005 di quasi un punto di Pil."
Allora, io mi chiedevo, l'andamento del saldo strutturale non misura il
saldo del governo a netto dell'impatto delle fluttuazioni economiche, a
netto, cioè, della cosiddetta componente ciclica?
Quando l’economia si assesta ad un livello inferiore al suo potenziale,
il saldo di bilancio strutturale sarà al di sopra del saldo reale (più
ampio surplus o minor deficit): non è vero che parte del saldo reale
rifletterà non già il risultato di decisioni attive su spese ed entrate,
ma dell’economia che opera temporaneamente al di sotto del suo
potenziale?
Risposta: Per quanto riguarda la sua prima domanda, quello che
dice è esatto.
Per quanto concerne la seconda domanda, se l'economia cresce meno del
potenziale, si hanno meno entrate e più uscite, quindi un saldo più
basso.
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