La Commissione della Comunità europea ha deciso che non esistono sufficienti elementi per avviare una procedura di infrazione nei confronti delle banche popolari, e che quindi non sussiste un’incompatibilità della loro disciplina con le norme comunitarie sulla libera circolazione dei capitali.
Una riforma necessaria
La decisione allontana, opportunamente, il pericolo di drastici interventi demolitori su questa categoria di banche, ma non può costituire un comodo escamotage per rinviare una ormai necessaria riforma.
D’altronde, è stato proprio il governatore della Banca d’Italia a richiamare, recentemente, i rischi di autoreferenzialità del management delle popolari e gli ostacoli al rafforzamento patrimoniale derivanti dal modello cooperativo, invitando a riprendere la riflessione su alcune misure, già previste da diverse proposte di legge, per attenuare i limiti di partecipazione al capitale da parte degli investitori istituzionali e per rafforzare la protezione degli azionisti, pur, sono parole dello stesso governatore, "mantenendo i caratteri essenziali della forma cooperativa". (1)
Queste affermazioni rappresentano senz’altro un’importante presa di posizione che è auspicabile abbia una qualche influenza su un legislatore finora apparso, in questa materia, un po’ titubante.
Non si può, però, nascondere il fatto che alcuni degli interventi di prevenzione dei rischi richiamati dal governatore sarebbero possibili senza aspettare la legge, ad esempio con l’introduzione negli statuti di un limite massimo ai mandati degli amministratori. Le banche popolari potrebbero cioè darsi un proprio codice di autodisciplina con standard di adesione volontaria particolarmente attenti alla peculiarità della corporate governance cooperativa; ma non sembra che queste opzioni riscuotano al momento (e si capisce perché) grande successo.
Il vero problema: "liberalizzare" le deleghe
Bisogna aggiungere che alcune delle proposte del governatore, come ad esempio l’incremento delle soglie di partecipazione degli investitori istituzionali, corrono il rischio di esercitare scarsa attrattiva, in assenza di strumenti che diano anche maggiori possibilità di voice (cioè di contare qualcosa) negli assetti di governo.
E contare qualcosa è difficile a causa della presenza del voto capitario che è un elemento essenziale e qualificante della forma cooperativa, ma allo stesso tempo abbassa notevolmente gli incentivi alla partecipazione dei soci, indebolendo la loro capacità di "monitorare" gli amministratori che proprio per questo motivo possono diventare onnipotenti e autoreferenziali.
L’unica strada per conservare il voto capitario, rendendo più trasparenti e controllabili gli assetti di governo, è allora quella di consentire una effettiva partecipazione dei soci, con strumenti che garantiscano realistiche possibilità di organizzare il voto.
In primo luogo, dovrebbero essere aumentati i limiti alla raccolta delle deleghe di voto, con la definizione di soglie percentuali rapportate alla dimensione del capitale, e non con tetti quantitativi come quelli previsti dalla attuale disciplina, che in compagini societarie con migliaia di soci si rivelano del tutto inadeguati
Inoltre, e soprattutto, andrebbe ripristinata la possibilità, prevista dal Testo unico della finanza, di superare il limite quando si pone in essere una vera e propria sollecitazione delle deleghe rivolta a tutti i soci. Ripristinata perché, quando fu redatto il Tuf, in una sua prima versione si prevedeva che nelle popolari quotate, come in tutte le altre società, ci fosse la possibilità di sollecitare le deleghe di voto, possibilità che fu poi esclusa nel testo finale, per ragioni che non è facile comprendere.
Infatti poiché, come è ovvio, la natura della proprietà della cooperativa non consente il ricambio del controllo societario tramite il tradizionale meccanismo dell’offerta pubblica di acquisito, la contendibilità può riguardare solo gli assetti di governo: eliminare l’unico reale strumento utilizzabile a questi fini, significa di fatto impedire ogni cambiamento. Senza tener conto che, secondo la disciplina del Testo unico bancario e del codice civile, le banche popolari possono trasformarsi in società per azioni. Potrebbe, quindi, essere lanciata un’Opa sul capitale della banca con contemporanea sollecitazione delle deleghe, per poi andare in assemblea e deliberare la trasformazione. In questo modo, si supererebbero le presunte disparità tra le banche popolari e le altre società quotate, spesso evocate da chi vorrebbe impedire alle cooperative di quotarsi, perché sarebbero i soci a decidere, in maniera aperta e trasparente, se preferiscono realizzare, vendendo le proprie azioni, o se invece vogliono conservare il rapporto cooperativo.
Gli interessi dei soci
Qualcuno potrebbe obiettare che nell’esperienza quasi decennale del Testo unico della finanza la sollecitazione delle deleghe non ha certo avuto grande successo e potrebbe quindi rivelarsi un’arma spuntata. Ma forse a questo strumento è proprio mancato il terreno principale dove avere una più feconda sperimentazione, e, in fini dei conti, anche la sua semplice esistenza potrebbe comunque conseguire quell’effetto "minaccia" al quale gli amministratori delle popolari, non esposti al rischio di ricambio del controllo proprietario, sono sottratti.
Ovviamente, nessuno pensa che una simile innovazione abbia effetti miracolosi, né tantomeno che debba aprire la strada a una stagione di frenetiche battaglie assembleari, anche perché, come avviene in tutte le società, quando si realizzano buoni risultati attraverso gestioni trasparenti ed efficienti i soci hanno tutto l’interesse a tenersi i propri amministratori.
L’importante è che quando questo interesse viene meno, non siano costretti a tenerseli lo stesso.
(1) Intervento del governatore della Banca d’Italia alla Giornata mondiale del risparmio del 2006, sui siti www.acri.it
www.bancaditalia.it.
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