Le banche tornano nuovamente nel mirino dell’antitrust: in recente
bollettino, infatti, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato
ha deciso di avviare un’indagine per valutare costi, pecuniari e non,
che gli utenti devono affrontare quando decidono di cambiare banca. (1)
Gli switching costs, o costi di cambiamento,
assumono talora una dimensione rilevante e possono di conseguenza limitare
la mobilità dei consumatori tra istituti di credito, restringendo
significativamente la concorrenza.
Costi di cambiamento e strategie delle banche
La presenza di costi di cambiamento può essere strutturale,
connessa ad alcune caratteristiche organiche al settore. Ma può essere
anche strategica, determinata ad hoc dalle imprese per
vincolare i consumatori nelle scelte e creare perciò uno spazio di
monopolio.
In generale, l’effetto è quello di generare un’inerzia nelle scelte
dei consumatori, anche tra alternative apparentemente identiche. Ora,
sebbene la presenza di costi di cambiamento non implichi di per sé
l’esistenza di un comportamento abusivo delle norme antitrust, essa
nondimeno conferisce alle imprese potere di mercato,
ovvero la possibilità di praticare prezzi più elevati di quelli
concorrenziali, e procura quindi maggiori profitti. Tutto ciò,
naturalmente, a scapito degli utenti e dell’efficienza del mercato nel
suo complesso.
In ambito bancario, questa circostanza è talmente rilevante che in genere
il cambiamento di istituto di credito avviene solo in concomitanza di
eventi sufficientemente “traumatici” per il cliente, quale ad esempio
il cambio di residenza. (2)
Inoltre, l’emergenza di costi di cambiamento è ulteriormente
favorita dalla pratica dell’offerta multiprodotto che di fatto
moltiplica la loro entità: l’apertura del conto corrente, la
domiciliazione delle diverse utenze, la richiesta del bancomat e della
carta di credito, la sottoscrizione di mutui, eccetera, sono tutte
componenti dei costi finali che rendono maggiormente vincolante il
rapporto cliente-banca. Ognuno dei servizi descritti, come è ben noto
agli utenti, deve infatti essere estinto alla chiusura del conto corrente
e richiede una nuova apertura, con relativi oneri - di tempo e denaro -
presso il nuovo istituto di credito.
Gli effetti sulla concorrenza
La letteratura economica, benché in modo non sistematico, conferma
queste affermazioni. In uno studio sul mercato norvegese dei
mutui, ad esempio, è stato riscontrato che il 25 per cento del profitto
marginale delle banche (il profitto, cioè, per ogni mutuatario
addizionale) deriva dall’effetto lock-in e si sostanzia in media con un
rapporto banca-cliente della durata di 13,5 anni. (3)
Tale arco di tempo è in linea con i valori riscontrati sia nel
mercato europeo, sia in quello statunitense. (4)
Sul mercato britannico, la Uk Competition Commission (2001)
rileva egualmente che i consumatori tendono a vedere il cambiamento di
banca come un processo difficile e non premiante, e ciò di contro
permette di creare un sostanziale potere di mercato che procura un tasso
di profittabilità più elevato rispetto agli altri settori industriali. (5)
Almeno parzialmente, tutto ciò sembra confermare che il potere
di mercato attribuito dai costi di cambiamento viene sfruttato dalle
banche e ha un peso sui meccanismi competitivi e sugli esiti di mercato.
Cosa accade in Italia
Anche in Italia numerosi indizi supportano l’ipotesi di una
situazione analoga: l’esistenza ad esempio di una tasso di interesse sui
depositi bancari decrescente, più elevato cioè quando il deposito viene
attivato e via via ridotto nel tempo, sembra confortare l’idea che
all’estendersi del rapporto (e quindi al crescere dei costi di
cambiamento), la remunerazione necessaria per conservare un consumatore può
essere abbassata.
La situazione descritta sembra dunque complessivamente penalizzare la concorrenza
del mercato bancario, già mortificata dai consistenti limiti
imposti dalla regolamentazione che mira a mantenere la stabilità
finanziaria ed evitare pericolosi dissesti del sistema economico nel suo
insieme.
Esiste tuttavia una via d’uscita che potrebbe soddisfare esigenze
diverse e che è già stata adottata con parziale successo in altri
mercati: eliminare gli ostacoli alla mobilità dei consumatori.
Ciò è quanto avvenuto ad esempio nel settore telefonico mobile con la
portabilità del numero tra operatori diversi o nel settore assicurativo
con la portabilità del certificato di rischio. Queste soluzioni hanno di
fatto “liberato” i consumatori dalla dipendenza da un’unica impresa
e li hanno trasformati nei protagonisti dei mercati,
promotori più o meno consapevoli della concorrenza. Una soluzione analoga
parrebbe auspicabile anche nel settore bancario.
Di fronte alla nuova sfida, però, non appare ancora totalmente risolto il
conflitto istituzionale che vede contrapposte Banca
d’Italia da un lato e Agcm dall’altro. Anche in questo caso infatti
non è ben chiaro a chi spetta l’ultima parola in materia di assetto del
settore e di concorrenza. Questo nodo, ancora una volta, rischia di
complicare le scelte e, magari, di danneggiare soluzioni efficienti.
(1) Apertura indagine conoscitiva n. 13771, 16/11/2004,
Bollettino n. 47/2004, scaricabile da www.agcm.it
(2) Vedi Sharpe, S. A. (1997), “The Effect of
Consumer on Prices: A Theory and its Aplication to the Bank Deposit
Market”, in Review of Industrial Organisation, vol. 12, n. 1, pp. 79-94;
Kiser, E.K. (2002), “Predicting Household Switching Behavior and
Switching Costs at Depository Institutions”, in Review of Industrial
Organisation, vol. 20, n. 4, pp. 349-365.
(3) Klim M., Kliger D. e Vale B. (2001), “Estimating
Switching Costs: the Case of Banking”, Journal of Financial
Intermediation, 12, pp. 25-56.
(4) Shy, O. (2001), The Economics of Network
Industries, Cambridge University Press.
(5) Vedi Lloyds TSB Group plc and Abbey National plc,
su www.Competition-Commission.org.uk
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