articolo
su pena certa e speranza di un carcere migliore
Trent’anni alla
deriva in porti senza attracco, per chiedermi quale persona voglio essere io?
Non esistono
risposte facili o risolutive, non occorre neppure confezionare un risultato
tranquillizzante, più semplicemente è necessario disporsi a rispettare quel
patto di lealtà con la società tutta, con un’azione consapevole, nei gesti di
tutti i giorni, e infine rispondere a quella domanda: voglio essere una persona
migliore.
La campagna
elettorale s’è da poco conclusa, uomini e schieramenti avversi hanno usato le
stesse parole, identici slogans, equiparando il detenuto a un fruitore di
privilegi, il carcere a un contenitore di servizi destinati all’insuccesso, la
pena erogata una garanzia per pochi illusi.
Ma se i
clandestini sono troppi, aggrappati a una sopravvivenza assai poco prossima al
vivere civile, se sulle strade in molti si travestono da drivers sconsiderati,
se nelle famiglie e nelle scuole sono apprezzate le scelte degli adolescenti che
non fanno perdere tempo prezioso, poco importa se disconoscono il valore della
libertà e delle responsabilità, forse occorre formulare un’idea riformatrice che
spinga alla riflessione.
Leggi, norme,
scelte di politica criminale non sono eventi umorali, lo sono invece gli
investimenti umani e finanziari per essere correttamente applicate.
Non credo che il
ricorso agli eccessi, alle risposte prive di umanità, sia la soluzione giusta da
offrire alla richiesta doverosa di giustizia da parte della società.
C’è l’esigenza di
ribadire l’importanza del rispetto delle regole, il valore di norme condivise,
non sicuramente il comando ad abitare uno spot pubblicitario.
Non c’è un
detenuto privilegiato, il carcere non è il bengodi dei diritti a discapito dei
doveri.
Di fronte alla
sofferenza di chi è vittima del reato, è davvero arduo parlare di inutilità
della pena, quando questa è in eccesso o non ha più motivo di essere, essendo
intervenuto un cambiamento effettivo nella persona ristretta, un distacco dal
passato e addirittura dal retroterra, attraverso una revisione critica, un
mutamento interiore che diviene pratica quotidiana verso se stesso e gli altri,
una nuova condotta sociale che non consente baratti di sorta.
Una pena senza
uno scopo condivisile non può esser considerata una punizione comprensibile,
giusta, forse in questi termini ha più le sembianze di una vendetta.
Per mia
esperienza, so che trent’anni di prigione sono terreno fertile per imparare a
accettare il senso di un equilibrio della rendicontazione, una riconciliazione
realizzabile su basi differenti, ma quando la speranza scompare, con essa si
inaridisce la tua umanità.
Il carcere, il
detenuto, la condanna, sono espressioni sociali che non è possibile
semplicizzare, perché il carcere sequestra i bisogni, impossessandosi del corpo
e dei movimenti, e giorno dopo giorno la fantasia e la creatività sono relegate
alla periferia di ogni recinto, in un perimetro chiuso, stabilito non solo dalla
fisicità della segregazione, ma da un modello culturale basato sull’esclusione,
che finisce davvero per alterare la percezione delle relazioni.
Archivio Amicizia
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