Fino al 1994 il sistema idrico in Italia è stato gestito dagli
acquedotti comunali; le bollette sono basse, e le perdite d’acqua sono
alte, ma soldi da investire non ci sono. Poi arriva la Legge Galli che
stabilisce come i comuni, se vogliono, possono trovare i soldi
formando una società per azioni insieme a un socio privato: nella
tariffa ci va dentro tutto, dalle spese per la depurazione, alle
fognature, agli investimenti. Ieri, con 320 si e 270 è passato alla
Camera il famigerato decreto Ronchi, cosiddetto “dl salva infrazioni”,
che oltre ad imporre le attuazioni degli obblighi comunitari, contiene
anche le discusse norme che danno di fatto il via libera alla
“privatizzazione” dell’acqua pubblica. Il Governo, nella sua smania di
delegittimare il Parlamento e quella che dovrebbe essere la sua
funzione di dibattito, ha avuto la brillante idea di blindare il
decreto all’interno del meccanismo della fiducia e così, salvo
imprevisti procedurali dell’ultima ora, il prossimo 24 novembre
diverrà legge di Stato.
L’articolo contestato è il numero 15 e statuisce la
liberalizzazione dei servizi pubblici locali: dal 1 gennaio 2011 tutte
le gestioni nate da affidamenti “in house” - ovvero l'ipotesi
prospettata dalla Legge Galli in cui l'appalto viene affidato a
soggetti che siano parte della amministrazione stessa, quelle che
volgarmente chiamiamo municipalizzate - dovranno necessariamente
interrompersi per lasciare spazio a gare ad evidenza pubblica indette
dalle amministrazioni locali. Le società partecipate possono mantenere
contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in
cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40% del capitale. Diverso
il discorso per quanto riguarda le società quotate che hanno tre anni
in più per adeguarsi, a patto che abbiano almeno il 40% di quota di
partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al
2015.
Delle quote societarie agli italiani interessa però ben poco. Il
problema sollevato da questo ennesimo sciagurato provvedimento
dell’Esecutivo ruota tutto attorno al costo che l’operazione
rappresenterà per le nostre tasche: se è vero che oggi il nostro Paese
applica le tariffe tra le più basse d’Europa - in media 1,29 euro al
metro cubo ovvero 19,7 euro al mese a famiglia - la nuova regola
potrebbe portare ad aumenti che vanno dal 40% al 60%, facendo
lievitare i costi in bolletta di circa 10 euro in più ogni mese, anche
se allo stato attuale è impossibile quantificare quante e quali
stangate dovranno subire i cittadini. Piazza Affari ieri ha reso bene
l’idea: poco dopo l’annuncio dell’approvazione alla Camera, i listini
delle società di gestione idrica già presenti sul mercato hanno avuto
delle impennate spaventose.
Il problema della nuova norma non sta però solo nei costi. Per
quanto ci ostiniamo a considerarci come uno dei paesi più sviluppati,
la nostra penisola soffre ancora di realtà borderline con il terzo
mondo: ad oggi, come fa notare Ettore Livini su Repubblica, sono
ancora 2,5 milioni le persone che vivono senz’acqua, 9 milioni senza
fogne e 20 senza depuratori. Ricorderete tutti i servizi estivi sulle
popolazioni del sud messe in ginocchio dalla siccità e costrette a un
approvvigionamento idrico “sudamericano” fatto di autobotti e prezzi
esorbitanti.
Il 15 ottobre del 2006 Report trasmetteva l’inchiesta “L’acqua alla
gola” in cui si metteva in evidenza la massima del mezzogiorno che
stabilisce che dove lo stato non c’è, subentra la mafia: le immagini
mostravano un quartiere di Palermo, il tristemente noto Zen, in cui
gli abitanti (per quanto in maggioranza abusivi) vivevano sprovvisti
dell’allaccio a luce e acqua, ed erano costretti ad auto organizzarsi
in sgangherati gruppi d’acquisto per accedere a taniche d’acqua dai
costi spropositati, in media 2 euro al giorno per 60 euro al mese.
Dato l’appeal speculativo di una risorsa naturale e soprattutto
fondamentale come l’acqua, il timore condiviso da molti è
rappresentato dalle probabili infiltrazioni della malavita organizzata
nella gestione e nella distribuzione di questo bene di prima
necessità. Le cronache recenti testimoniano la facilità con cui mafia,
n’drangheta e camorra si siano inserite nell’ambito della
privatizzazione della conduzione del ciclo dei rifiuti, ma nel decreto
Ronchi nulla impedisce a sedicenti aziende private affiliate ai clan,
di proporsi come candidate ai bandi che indiranno le amministrazioni
locali.
Se a questo già disastrato quadro si aggiunge che la nostra rete
idrica e fognaria ha uno stato di conservazione simile agli acquedotti
romani - ovvero è piena di falle e necessita una continua manutenzione
quantificabile in circa 2 miliardi euro l’anno - ben si capirà come il
Governo trovi più semplice affibbiare questo oneroso compito ai
privati. Questi ultimi però, in naturale connessione al loro statuto
giuridico e ai loro ineludibili interessi, saranno ben poco attirati a
migliorare una struttura che (come per i binari di Trenitalia) rimane
statale al 100%: investendo sulla rete i privati migliorerebbero sì il
servizio, ma sarebbero costretti a fare delle spese su qualcosa che
non sarà mai loro proprietà e ne saranno perciò scoraggiati.
Non è perciò un caso il fatto che si sia inserito un così epocale
cambiamento all’interno di un decreto più generale riguardante tutti i
servizi pubblici: silenziosamente, un’altra fetta della nostra ormai
scarna sovranità popolare se ne va e poco importa a questo Governo che
la moneta di scambio sia la fonte e il sostentamento di ogni forma di
vita.
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