I lupi e gli agnelli>
L’acqua
è già e lo sarà ancora di più nei prossimi anni uno dei problemi più gravi che
l’umanità si trova a dover affrontare. Sempre più frequentemente sentiamo dire
che le risorse idriche stanno diventando sempre più rare (ma spesso si enfatizza
a bella posta l’allarme sulla penuria d’acqua come se fosse un dato
ineluttabile) e sempre più di difficile accesso.
Le
politiche sull’acqua che si sono imposte negli ultimi anni sono imposte dalle
società multinazionali e rispondono a logiche di mercificazione e di
privatizzazione. L’acqua viene considerata non un bene pubblico ma una merce
nelle mani di pochi grandi gruppi industriali che agiscono perseguendo la
massimizzazione dei profitti. L’accesso all’acqua sarebbe un bisogno che
ciascuno deve cercare di soddisfare come può, non un diritto che dev’essere
garantito a tutti, in base a una considerazione che dovrebbe essere ovvia ma non
lo è: l’acqua non è un bene economico qualsiasi ma una fonte di vita e la vita
dev’essere assicurata a tutti, fa parte di quei diritti inalienabili e
immercificabili che ognuno acquisisce nascendo.
Invece
nel mondo attuale il liberismo viene applicato a tutto e il soddisfacimento del
“bisogno” d’acqua dipende dalla volontà dei “signori dell’acqua”, i quali si
comportano come il lupo e l’agnello della favola: chi sta in alto dispone a suo
piacimento se fare bere o meno chi sta in basso e ogni pretesto è buono per
negare o razionare l’accesso, manovrando la leva dei costi.
Queste
politiche che potemmo sinteticamente definire come “uso privato di risorse
pubbliche” hanno precedenti storici, di cui forse l’esempio più significativo
possiamo trovarlo in Sicilia.
Il controllo mafioso
dell’acqua come esempio di uso privato di una risorsa pubblica
L’acqua
è uno dei settori su cui i gruppi mafiosi hanno esercitato il loro dominio. La
mafia siciliana non è solo un’organizzazione criminale ma qualcosa di più
complesso: i gruppi criminali agiscono all’interno di un sistema di relazioni,
hanno rapporti con il contesto sociale, con l’economia, la politica e le
istituzioni, le attività delittuose sono intrecciate con attività legali e
perseguono fini di arricchimento e di potere.(1)
Nessuna sorpresa quindi se la mafia ha rivolto particolare attenzione a una
risorsa fondamentale come l’acqua, approfittando delle opportunità offerte dal
contesto politico-istituzionale.
Con la
costituzione dello Stato unitario non c’è stata in Italia una politica di
pubblicizzazione e regolamentazione delle acque e in Sicilia, in particolare
nelle campagne palermitane, si è imposta la pratica del controllo privato
esercitato da guardiani, i “fontanieri”, stipendiati dagli utenti. I guardiani
erano nella maggioranza legati alla mafia, così pure i “giardinieri”, cioè gli
affittuari e gli intermediari.
Il
controllo sull’acqua ha causato contrasti che sono all’origine delle guerre di
mafia. Nell’ottobre del 1874 viene ucciso a Monreale, il centro vicino Palermo
sede del famoso duomo arabo-normanno, il fontaniere Felice Marchese. Il delitto
si inserisce nel conflitto tra due organizzazioni mafiose rivali, i Giardinieri
e gli Stoppaglieri, che è la prima guerra di mafia documentata(2).
Successivamente, nell’agosto del 1890, si avrà un altro omicidio. Questa volta a
cadere è il guardiano dell’acqua dell’Istituto psichiatrico di Palermo,
Baldassare La Mantia, che si era rifiutato più volte di favorire i fratelli
Vitale, gabelloti (affittuari) e capimafia della frazione palermitana Altarello
di Baida. Interessante l’analisi della situazione che a partire da questo
omicidio fa il questore Ermanno Sangiorgi che in una serie di rapporti
ricostruisce la mappa delle famiglie mafiose e dà un’immagine di essa
(un’organizzazione diffusa sul territorio e strutturata centralmente) molto
simile a quella che negli anni ’80 del XX secolo sarà “scoperta” attraverso le
dichiarazioni dei mafiosi collaboratori di giustizia:
È noto come questa delle usurpazioni destinate all’irrigazione dei giardini
rappresenti una delle fonti d’illecito guadagno della criminosa associazione, ed
è facile intuire che la resistenza del La Mantia oltreché offesa all’autorità
della mafia costituì grave minaccia agli interessi economici della setta,
potendo fare scuola agli altri guardiani dell’acqua non affiliati
all’associazione. Sicché non deve sembrare strano che per questo motivo, in
apparenza ed in altro ambiente non abbastanza grave, i Vitale e consoci abbiano
determinato, come fecero, di uccidere.(3)
L’acqua
è una risorsa essenziale per la coltivazione degli agrumi che negli anni
successivi alla creazione dello Stato unitario vengono esportati sul mercato
nazionale e internazionale, in particolare negli Stati Uniti, principale meta di
emigrazione dopo la sconfitta della prima ondata del movimento contadino (i
Fasci siciliani). Il controllo dell’acqua e del mercato agrumicolo è nelle mani
di gruppi mafiosi che avviano i primi rapporti con gli emigrati in America, tra
cui ci sono i fondatori dell’organizzazione mafiosa d’oltre Oceano.
Il
controllo mafioso dell’acqua continuerà anche dopo e i mafiosi non esiteranno a
ricorrere all’omicidio se esso verrà messo in forse. Nel 1945, a Ficarazzi, nei
pressi di Palermo, al centro della pianura coltivata ad agrumi, viene ucciso
Agostino D’Alessandro, segretario della Camera del lavoro, che aveva cominciato
una lotta contro la mafia dell’acqua. Era stato “invitato” a desistere ma aveva
continuato la sua battaglia, all’interno della mobilitazione dei contadini che
raccoglierà centinaia di migliaia di persone impegnate nella lotta per la
riforma agraria e per la democrazia, scontrandosi duramente con la mafia.(4)
I
mafiosi fanno sentire tutto il peso del loro potere all’interno dei consorzi di
irrigazione di nuova istituzione. L’esempio più noto è il consorzio dell’Alto e
Medio Belice. Il consorzio istituto nel 1933, in pieno periodo fascista,
abbracciava un comprensorio di circa 106.000 ettari ed era stato costituito per
la realizzazione di una diga sul fiume Belice. Esso rimase inattivo fino al
1944, per l’opposizione della mafia, che temeva «che lo sviluppo dell’iniziativa
poteva toglierle il monopolio dell’acqua e sovvertire l’ordine delle cose (campierato
ed usura) fino ad allora sotto il suo diretto controllo».
(5)
L’unica
attività che il consorzio riesce a realizzare è la costruzione di strade che non
è ostacolata dai mafiosi che organizzano la raccolta e la fornitura di pietre
alle imprese di costruzione. Tra questi mafiosi c’è il giovane Luciano Liggio
che costituisce una società di autotrasporti e non è contrario all’attività del
consorzio intuendo che esso può offrire grandi opportunità. Infatti la
costruzione di dighe sarà un ottimo affare per i mafiosi che sanno inserirsi
accaparrandosi buona parte degli stanziamenti pubblici. Esemplare la vicenda
della costruzione della diga Garcia sul Belice, chiesta a gran voce dai
contadini e ottenuta dopo anni di lotte. Il capomafia Peppino Garda compra i
terreni, ottiene finanziamenti per migliorare le coltivazioni e infine li
rivende, a un prezzo di gran lunga superiore a quello d’acquisto, agli enti
pubblici interessati alla costruzione della diga. Una speculazione studiata a
tavolino pienamente riuscita grazie alle complicità delle istituzioni.
La sete di Palermo
La
grande “sete di Palermo” del 1977-78 fu l’occasione per l’apertura di
un’inchiesta sulle fonti di approvvigionamento idrico nell’agro palermitano. Tra
le poche fonti informative esistenti c’era la Carta delle irrigazioni siciliane
redatta nel 1940 dalla sezione di Palermo del Servizio idrografico del Ministero
dei lavori pubblici, da cui risultava «un aggrovigliarsi di usi di acque delle
più diverse provenienze» e individuava 114 sorgenti e 600 pozzi che prelevavano
l’acqua dalla pingue falda freatica. Un documento più recente, del 1973, redatto
dall’Ente sviluppo agricolo (Esa) rilevava l’esistenza di 1.469 pozzi che
attingevano alla falda freatica nella fascia costiera.
Queste
acque sotterranee per la grande rilevanza che avevano per il soddisfacimento del
fabbisogno idrico della città e delle campagne avrebbero dovuto essere inserite
nell’elenco delle acque pubbliche, invece vengono lasciate sfruttare dai privati
e in prima fila sono i più noti rappresentanti dell’associazione mafiosa. A dire
del magistrato che condusse l’inchiesta, il pretore Giuseppe Di Lello, il
criterio nella redazione degli elenchi delle acque pubbliche è il “rispetto”
delle acque private. Nel Prga (Piano regolatore generale degli acquedotti)
redatto dal Ministero dei lavori pubblici e approvato nel 1968 figuravano solo
13 pozzi, di cui due salini e quattro in via di esaurimento per impoverimento
della falda, mentre non c’era traccia dei pozzi ricchissimi d’acqua gestiti dai
Greco di Ciaculli, una delle dinastie mafiose più note, e da altre famiglie
mafiose: i Buffa, i Motisi, i Marcenò, i Teresi.
Ovviamente la falda freatica andava impoverendosi per il vero e proprio
saccheggio perpetrato dai privati e in particolari dai mafiosi e in molti pozzi
era già in stato avanzato l’intrusione di acqua marina che ne rendeva
impossibile l’uso. L’acqua dovrebbe essere un bene pubblico, invece l’Azienda
municipale acquedotto di Palermo (Amap) prende in affitto i pozzi dei privati e
negli anni ’70 il Comune di Palermo paga quella che dovrebbe essere la sua acqua
circa 800 milioni l’anno. Particolare significativo: i privati per scavare i
pozzi si servono dei mezzi dell’Esa, cioè di un ente pubblico, e con modica
spesa realizzano affari consistenti. L’Amap, alla ricerca di nuove acque,
trivella le zone povere d’acqua, lasciando le zone più ricche al monopolio dei
privati.
Le
responsabilità di tale situazione sono state chiaramente individuate, ai vari
livelli: dal Ministero dei lavori pubblici all’Assessorato regionale, al
Provveditorato per le opere pubbliche, all’Ufficio del Genio civile e,
ovviamente, all’Amap. Alcuni fatti costituivano reato e gli atti vennero inviati
alla Procura della Repubblica ma l’inchiesta non ebbe seguito.
Un’altra
inchiesta condotta nel 1988 si concludeva con il rinvio a giudizio di vari
mafiosi, di proprietari di pozzi e di alcuni tecnici, ma il processo si concluse
con una serie di assoluzioni.
Le mani sulle opere
pubbliche
In media
ogni anno piovono in Sicilia 7 miliardi di metri cubi d’acqua, quasi il triplo
del fabbisogno calcolato in 2 miliardi e 482 milioni di metri cubi (1 miliardo e
325 milioni per l’irrigazione dei campi, 727 milioni per dissetare i centri
abitati, 430 milioni per il fabbisogno industriale). Eppure la Sicilia soffre la
sete, e in alcune zone, per esempio nelle province di Agrigento, Caltanissetta,
ed Enna, è emergenza permanente.
Ci sono
dighe che da vent’anni attendono di essere completate, o non sono state
collaudate e possono contenere solo una parte della capienza. Ci sono le
condotte colabrodo (si parla di perdite del 50 per cento). Questo non è solo il
frutto del controllo mafioso sull’acqua ma più in generale di una politica delle
opere pubbliche all’insegna dello spreco e del clientelismo. L’opera pubblica, a
prescindere dai miglioramenti che può arrecare alle condizioni di vita della
popolazione di un determinato territorio, viene utilizzata come occasione di
speculazione e di accaparramento del denaro pubblico. Perciò i lavori devono
durare pressoché all’infinito e il risultato finale non conta. Attorno all’opera
pubblica si forma un grappolo di interessi che coinvolge imprenditori,
amministratori, politici, mafiosi che controllano la spartizione degli appalti,
praticano i pizzi sulle imprese, forniscono loro materiali e servizi, o sono
impegnati direttamente nell’attività imprenditoriale.
Questo
groviglio di interessi è alla base di quel che ancora oggi accade in Sicilia.
Nessuna delle dighe esistenti è autorizzata ad essere riempita completamente.
Qualche caso, tra i più eclatanti. La diga Ancipa potrebbe raccogliere 34
milioni di metri cubi d’acqua, ne raccoglie solo 4 milioni. La diga presenta
delle crepe, segnalate da più di trent’anni. La diga Disueri potrebbe contenere
23 milioni di metri cubi, ma deve fermarsi a 2 milioni e mezzo. La diga Furore,
in provincia di Agrigento, completata nel 1992, non è mai entrata in funzione.
Per altre dighe mancano gli allacciamenti. Spesso si dice che mancano i soldi,
ma in più di un caso i soldi ci sono e non si spendono per inerzia delle
amministrazioni che continuano a favorire l’approvvigionamento da parte di
privati.
Lo
scorso mese di febbraio oltre sette milioni di metri cubi rischiavano di finire
in mare, perché le dighe non erano in grado di contenere l’acqua caduta con le
abbondanti piogge. In Sicilia si fanno processioni e cerimonie religiose per
invocare la pioggia, ma quando c’è la pioggia bisogna svuotare le dighe. E
questo non è solo mafia. E va ribadito che la mafia ha potuto operare, nel
settore dell’acqua come in altri settori, perché ha goduto di un contesto
favorevole e di complicità, omissive o attive, diffuse.
Data la
frammentazione della gestione, spesso riesce difficile individuare le
responsabilità. In Sicilia si dovrebbero occupare di acqua 3 enti regionali, 3
aziende municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di
bonifica, 284 gestioni comunali, 400 consorzi fra utenti e altri 13 consorzi.
All’ennesima emergenza idrica, si è pensato di risolvere il problema nominando
commissario il presidente della Regione. Per il 2000 un’ordinanza di protezione
civile stanziava 54 miliardi per opere urgenti da realizzare nel giro di nove
mesi e disponeva poteri di approvazione rapida dei progetti per il presidente
della Regione, ma le inadempienze della Regione hanno indotto il ministro dei
lavori pubblici a nominare, nel febbraio del 2001, un commissario dello Stato,
il generale dei carabinieri Roberto Jucci. Il commissario si è dato da fare
andando in giro per l’isola, redigendo una mappa degli invasi e ha proposto
l’istituzione di un’Authority, cioè di un organo unico che sovrintenda a tutta
la questione dell’acqua in Sicilia, gestendo unitariamente le dighe, il sistema
idrogeologico, le condotte di adduzione, gli impianti comunali. La proposta era
stata già fatta dalla giunta regionale nel 1990 ma non si è mai realizzata. Pare
che adesso qualcosa si smuova ma tra il commissario, nominato dal governo
nazionale di centro-sinistra, e la giunta regionale nata dalla schiacciante
vittoria del centro-destra alle elezioni del 24 giugno sono sorti problemi che
rischiano di riportare la situazione al punto di prima.
Le multinazionali
dell’acqua
L’esempio della Sicilia non è un caso isolato e irripetibile. Se negli ultimi
anni a livello nazionale e mondiale sono sorti o si sono rafforzati gruppi
criminali di tipo mafioso, cioè che hanno la complessità della mafia siciliana,
sul problema dell’acqua, come accennavamo all’inizio, si sono imposte politiche
di privatizzazione dovute all’emergere di grandi gruppi imprenditoriali.
I
“giganti dell’acqua” sono soprattutto due imprese francesi: la Vivendi, ex
Générale des Eaux, e la Ondeo, ex Lyonnaise des Eaux. Vivendi è il più
importante operatore nel settore dell’acqua ma opera anche in altri settori:
ambiente, energia, nettezza urbana, trasporti, telecomunicazioni (ha acquistato
recentemente l’americana Universal Picture e Canal +). Ha un fatturato annuo di
più di 150 miliardi di franchi francesi e impiega più di 140.000 persone.
La Ondeo
mira a scalzare la consorella francese e ha un ruolo internazionale di tutto
rispetto: è già presente in circa 20 paesi e nel 1997 gestiva il servizi idrico
in 14 grandi città, tra cui Manila, Budapest, Cordoba, Casablanca, Giacarta, La
Paz, Postdam, Indianapolis.
In Gran
Bretagna la privatizzazione dell’acqua è stata introdotta nel 1989 e le grandi
imprese britanniche, in particolare la Seven-Trent e la Thames Water, operano
anch’esse a livello internazionale. Il colosso elettrico tedesco, la RWE, opera
come impresa multisettoriale e ha interessi anche nel settore dell’acqua. In
Italia, in seguito alla legge Galli, aziende come la romana Acea, la milanese
Aem e la torinese Amt si sono estese sul territorio nazionale e in altri paesi.
In
Francia, dove la privatizzazione si configura come delega della gestione di un
servizio pubblico a un’impresa privata, si è avuto un aumento medio del prezzo
dell’acqua del 50%, a Parigi del 154%; gli utili delle imprese sono lievitati al
60-70% degli utili totali. Si aggiunga la scarsa trasparenza delle concessioni
con il relativo incremento delle occasioni di corruzione.
Nel
Regno Unito la privatizzazione prevede l’esproprio di un bene comune e le
imprese hanno fatto registrare utili esorbitanti, per cui si è escogitata una
tassa straordinaria.(6)
In altri paesi i costi dell’acqua sono diminuiti per i ricchi e aumentati per i
poveri: è il caso di Manila, capitale delle Filippine.(7)
Questa
invasione delle grandi imprese renderà sempre più difficile una politica
pubblica delle risorse idriche e imporrà sempre di più un modello fondato sulla
“petrolizzazione dell’acqua”, cioè sulla dittatura del mercato anche sull’acqua.
In questi ultimi anni si è parlato tanto di “fine delle ideologie” ma in realtà
abbiamo assistito al trionfo del liberismo che è anch’esso un’ideologia.
Sostenere che il mercato è il migliore, se non l’unico, meccanismo di
regolazione, è una tesi ideologica che semplifica la complessità del reale
riducendo tutto alla dimensione economica. L’acqua non è un bene di cui si possa
fare a meno, che si può scegliere di consumare o meno, ma un bene comune
indispensabile per vivere. Tutto questo viene ignorato e come si è fatto per il
petrolio, che è servito per arricchire le grandi multinazionali e gli sceicchi,
lasciando in miseria gran parte della popolazione dei paesi produttori, così ora
si vuole fare pure per l’acqua.
Il
Manifesto dell’acqua
Nel 1998
a Lisbona Organizzazioni non governative e altri soggetti hanno lanciato il
“Manifesto dell’acqua”.
Gli
attori sociali che debbono impegnarsi su questi obiettivi debbono essere i
parlamenti, le associazioni della società civile, gli scienziati, gli
intellettuali e i media, i sindacati. Si propone la costituzione di un
collettivo mondiale “Acqua per l’Umanità” e già nel 1998 si è costituito un
comitato promotore.(8)
L’Italia
non è stata fra i paesi più attivi per una politica mondiale dell’acqua,
comunque anche nel nostro paese si è costituito un Comitato per il contratto
mondiale dell’acqua e si è lanciato un Manifesto italiano.
Anche in
Sicilia si cerca di riprendere una battaglia che fu del movimento contadino
sulla base di alcuni principi che si richiamano al Manifesto dell’acqua: opporsi
alla privatizzazione e dichiarare tutto il patrimonio acquedottistico demanio
pubblico inalienabile, creare un’unica grande struttura pubblica regionale e
promuovere politiche di autogoverno del territori.(9)
Tutto ciò richiede la massima vigilanza nei confronti di qualsiasi ingerenza dei
gruppi mafiosi interessati a perpetuare il loro controllo e forti del fatto che
il modello di uso privatistico di una risorsa pubblica in questi anni invece di
regredire ha fatto passi
Archivio Acqua
|