La Fusione nucleare fredda, detta comunemente Fusione fredda o
Fusione a freddo (in inglese Cold Fusion, "CF", ma indicata anche
come Low Energy Nuclear Reactions, LENR, "reazioni nucleari a bassa
energia", o Chemically Assisted Nuclear Reactions, CANR, "reazioni
nucleari assistite chimicamente"), è un nome generico attribuito a
reazioni di presunta natura
nucleare, che si produrrebbero a
pressioni
e a
temperature molto minori di quelle necessarie per ottenere la
fusione nucleare "calda", per la quale sono necessarie temperature
dell'ordine del milione di kelvin
e densità del
plasma molto elevate. Alcuni studiosi ritengono che il termine fusione
fredda sia da sostituire con il termine LENR, in quanto tutti i
fenomeni qui di seguito descritti appartengono alla famiglia delle reazioni
nucleari a bassa energia.
Dopo il clamore provocato nel
1989 dagli esperimenti di
Martin Fleischmann
e Stanley Pons
(Università di Salt Lake
City - Utah), poi ripetuti
in diversi laboratori, sono seguiti degli studi teorici, tra i quali quelli di
Giuliano Preparata,
docente di Fisica Nucleare all'Università
di Milano, che elaborò la sua "teoria coerente sulla fusione fredda". Nel
maggio 2008
Yoshiaki Arata, uno
dei padri della
fusione nucleare calda nipponica, insieme alla collega Yue-Chang Zhang, ha
mostrato pubblicamente ad
Osaka un reattore funzionante con pochi grammi di
palladio. Se il successo di questo esperimento sia dovuto alla fusione
fredda o piuttosto ad una forma ancora non conosciuta di sviluppo di energia è
tuttora oggetto di controversie.
Metodi per produrre reazioni di fusione nucleare fredda
Così come per la
fusione nucleare calda (fusione termonucleare), anche per ottenere la
fusione nucleare fredda è necessario avvicinare i
nuclei atomici di deuterio
e trizio a distanze tali da
vincere la reciproca
forza coulombiana di repulsione dei
nuclei
carichi positivamente[1].
Ma, diversamente dalle reazioni di fusione termonucleare, coloro che sostengono
sia possibile ottenere la fusione nucleare fredda affermano che si può
raggiungere lo stesso risultato spendendo molta meno energia, grazie allo
sfruttamento di una poco chiarita azione da parte di un
catalizzatore, quale ad
esempio il
palladio[2].
A seconda del tipo di catalisi
utilizzata, si possono avere vari tipi di fusione nucleare fredda:
Catalizzazione da
muoni
Il muone è una particella
che ha la possibilità di sostituirsi all'elettrone
dell'atomo. Se all'atto della
sostituzione si dispone di una
massa assai maggiore di quella dell'elettrone (circa 200 volte), per il
principio di conservazione del
momento angolare i
muoni dovranno
orbitare a distanze molto più prossime al nucleo, schermando quindi
maggiormente la repulsione
elettrica. Questo permetterà l'avvicinamento tra quei nuclei che hanno
sostituito i propri elettroni con muoni, alla distanza necessaria ad innescare
una reazione di fusione nucleare, con conseguente emissione di
energia[3].
I muoni, una volta innescata la fusione tra due nuclei, possono sopravvivere
e quindi agire come
catalizzatori per altre nuove reazioni. Tutti i fisici concordano ormai
sulla capacità dei muoni di essere utilizzati come catalizzatori per generare
reazioni di fusione nucleare, ma vi è l'oggettiva impossibilità, allo stato
attuale della tecnologia, di rendere tali reazioni energeticamente convenienti.
Confinamento chimico
Il metodo detto del confinamento chimico si basa sulla possibilità di
utilizzare la proprietà del
palladio (o di altri catalizzatori) di
caricare all'interno del proprio
reticolo cristallino atomi di
idrogeno (o dei suoi
isotopi come
il deuterio), formando così
deuterio oppure
idruro di palladio[4].
Una condizione necessaria, ma non sufficiente, è che tale caricamento deve
essere assai elevato e deve raggiungere una percentuale di H/Pd o D/Pd, detta
anche di caricamento[5]
che abbia un valore di almeno il 95%. In altri termini, per ogni atomo di
palladio ci deve essere quasi un atomo di idrogeno o deuterio. Una simile
condizione è difficile da ottenere in tempi brevi, se non con particolari
procedimenti di natura fisica e/o chimica[6].
Esistono tre tipi di dispositivi a confinamento chimico:
1. Cella elettrolitica
È un dispositivo composto da un contenitore di materiale isolante, riempito
con deuterio in
soluzione in un
elettrolita, con al suo interno due elettrodi
conduttivi metallici.
Il primo elettrodo, chiamato
catodo, è generalmente di palladio o di un altro metallo capace di assorbire
gli atomi di
idrogeno o deuterio, ed è
inoltre collegato al polo negativo di un apposito
alimentatore a
corrente continua.
Il secondo elettrodo, chiamato
anodo, è composto da un materiale resistente alla
corrosione
elettrolitica, come ad esempio il
platino, ed è collegato al
polo positivo dell'alimentatore.
In questo tipo di cella, in particolari e non ancora chiarite condizioni
fisiche, viene osservata una emissione di calore, in quantità superiore a quella
che potrebbe generarsi secondo le classiche leggi della fisica[4].
Esempi di celle elettrolitiche:
2. Cella al
plasma elettrolitico
La cella al plasma elettrolitico (o cella di T. Ohmori e T. Mizuno) è un
dispositivo concettualmente simile alla Cella Elettrolitica, ma
funzionante in un regime completamente differente.
Il catodo è normalmente composto da una barra di
tungsteno, o altro
materiale metallico, capace di sopportare le elevatissime temperature prodotte
da una bolla di
plasma che si forma, a causa delle particolari condizioni di funzionamento,
intorno all'elettrodo stesso.
Esempi di celle al plasma elettrolitico:
3.
Cella a gas di deuterio o idrogeno
Alcuni scienziati, ad esempio
Yoshiaki Arata,
Francesco Piantelli e Francesco Celani, hanno realizzato delle celle dette
asciutte, nelle quali al posto di un elettrolita liquido vi è un
gas come il deuterio o
l'idrogeno, mentre il catodo è in
palladio o nichel; in tali
catodi, con opportune tecniche, può essere accumulato un grosso quantitativo di
gas.
La quantità di gas accumulabile all'interno del reticolo cristallino del metallo
può arrivare a circa un atomo di gas per ogni atomo di metallo. Un accumulo così
elevato, a certe condizioni non ancora del tutto note, può innescare fenomeni di
generazione anomala di calore.
Il vantaggio di tali celle, rispetto a quelle elettrolitiche, risiede nella
possibilità di effettuare esperimenti in condizioni controllate e, di
conseguenza, facilmente riproducibili.
Esempi di celle a gas:
I primi lavori
La particolare capacità del palladio di assorbire idrogeno fu riconosciuta
verso la fine del XIX secolo
da Thomas Graham.[7].
Nel 1926 due radiochimici,
Friedrich Adolf Paneth[8]
e K. Peters, pubblicarono un lavoro su una presunta trasformazione spontanea
dell' idrogeno in elio per
effetto di catalisi
nucleare, quando l'idrogeno è assorbito dal palladio a temperatura ambiente[7][9].
Successivamente questi autori ammisero che la quantità di elio da loro misurata
era alterata da un inquinamento di elio presente in modo naturale nell'aria.
Nel 1927 lo scienziato
svedese J.
Tandberg affermò di aver ottenuto una
miscela di idrogeno in elio
all'interno di una cella elettrolitica dotata di elettrodi in palladio[7].
Sulla base di questo lavoro richiese nel suo paese un
brevetto dal titolo: "Metodo
che produce elio ed utili reazioni energetiche". Dopo la scoperta del
deuterio, nel
1932, Tandberg continuò i suoi
esperimenti con l'acqua
pesante. A causa però della precedente scoperta di Paneth e Peters, seguita
poi dalla sua ritrattazione, il brevetto di Tandberg sarebbe comunque risultato
non valido[7].
Il termine fusione fredda ("cold fusion") fu coniato nel
1986 da
Paul Palmer, della
Brigham Young University, durante una ricerca di geo-fusione (geo-fusion)
sulla possibilità di esistenza di fenomeni di fusione all'interno dei nuclei
planetari[10].
Fusione
fredda a confinamento chimico
L'annuncio
di Fleischmann e Pons
Negli
anni sessanta Fleischmann annunciò che stava iniziando ad investigare sulla
possibilità che alcune reazioni chimiche potessero influenzare i processi
nucleari[11].
Predisse che gli effetti collettivi da lui esplorati avrebbero potuto richiedere
l'elettrodinamica
quantistica per essere calcolati, potendo condurre a risultati più
significativi rispetto agli effetti indicati dalla
meccanica
quantistica[12][13].
Affermò inoltre che nel 1983
aveva raggiunto un'evidenza sperimentale che lo portava a credere che nella fase
condensata i sistemi sviluppassero strutture
coerenti
piuttosto evidenti, con dimensioni dell'ordine dei 10-7m (1/10.000
mm)[12].
Come conseguenza di questi studi, Fleischmann e Pons iniziarono nel
1984 i loro esperimenti sulla
fusione fredda.
La cella utilizzata per i primi esperimenti
Cella elettrolitica di Fleischmann & Pons, nella versione del 1989
La configurazione iniziale della cella di Fleischmann e Pons utilizzava un
vaso di Dewar (vaso di
vetro a doppia parete al cui interno era stato fatto del vuoto) riempito di
acqua pesante per
svolgere l'elettrolisi,
in modo che fosse minima la
dispersione termica (meno del 5% durante la durata di un tipico
esperimento). La cella era poi immersa in un bagno
termostatato a temperatura costante in modo da eliminare gli effetti di
sorgenti di calore esterne.
I due scienziati utilizzarono una cella aperta, in modo da eliminare la
pericolosa formazione di sacche di
deuterio e
ossigeno risultanti dalle
reazioni di elettrolisi, anche se ciò avrebbe favorito qualche perdita termica e
comportava quindi il ricalcolo della minore potenza prodotta dalla cella stessa
a causa della perdita. Questa configurazione, a causa dell'evaporazione
del liquido, rendeva necessario rabboccare di tanto in tanto il vaso con nuova
acqua pesante. I due scienziati fecero poi notare che se la cella era alta e
stretta, le bolle di gas prodotte dalla elettrolisi potevano mescolare l'acqua
pesante contenuta e portarla ad una temperatura uniforme.
Una particolare attenzione era poi stata riposta nell'utilizzo di un
catodo di
palladio e di un elettrolita di grande purezza, in modo da prevenire la
possibilità di formazione di residui sulla superficie; questo specialmente per
gli esperimenti più lunghi.
La cella era corredata di un
termistore per la misura della temperatura dell'elettrolita, e di un
riscaldatore elettrico per la generazione degli impulsi di calore necessari a
compensare le perdite di calore dovute alla evaporazione del gas. Dopo la
compensazione (calibratura) era possibile ottenere con relativa facilità il
valore del calore generato dalla reazione[14].
Una corrente costante fu applicata alla cella per un periodo di diverse
settimane, e quindi fu necessario rabboccare via via la cella con nuova acqua
pesante. Per la maggior parte del tempo la potenza elettrica immessa nella cella
rimase praticamente uguale a quella dispersa dalla cella stessa, evidenziando un
funzionamento della cella secondo le consuete leggi dell'elettrochimica. In
queste condizioni la temperatura della cella era di circa 30 °C. In certi
momenti, però, e solo per alcuni esperimenti, la temperatura aumentava
improvvisamente, sino a circa 50 °C, senza che fosse variata la potenza
elettrica in ingresso; questo fenomeno poteva durare due o più giorni. In questi
particolari momenti la potenza generata poteva essere superiore a 20 volte la
potenza elettrica applicata in ingresso alla cella. In altri casi questi
repentini innalzamenti di temperatura non venivano riscontrati per molto tempo e
quindi la cella veniva spenta.
La temperatura della cella era misurata con un
termistore, mentre un
altro termistore era posto direttamente sul catodo, in modo da poterne misurare
la temperatura durante gli eventi di surriscaldamento.
L'efficacia di quel metodo di rilevamento è stata spesso elemento di
contestazione[15].
L'esperimento, nel suo insieme, è stato poi criticato da Wilson[16]
Altri esperimenti basati sull'utilizzo di celle aperte sono stati criticati
da Shkedi[17]
e Jones[18].
Molti ricercatori che hanno fatto sperimentazione sulla fusione fredda hanno
trovato tali critiche non convincenti e comunque non applicabili in altre
tipologie di esperimenti[18][19][20].
Comunicazione alla stampa ed inizio del dibattito
La fusione fredda venne improvvisamente alla ribalta il 23 marzo
1989, quando i chimici
Martin Fleischmann
dell'Università
di Southampton in
Inghilterra e Stanley
Pons dell'Università dello Utah,
annunciarono alla stampa di essere riusciti a realizzarla.
La dichiarazione fu resa alla stampa il 10 marzo
1989, in un clima internazionale
assai sensibile alle proposte di metodi alternativi di produzione energetica,
essendo ancora vivo il dibattito sul nucleare, acutizzato sia dal
disastro di Chernobyl del 26 aprile
1986 sia dal disastro ecologico
della petroliera Exxon
Valdez, avvenuto qualche mese prima.
Per cause non del tutto chiare, i due ricercatori rilasciarono la conferenza
stampa prima che ne apparisse la pubblicazione su di una rivista scientifica,
pubblicazione che avvenne il successivo 10 aprile con un breve articolo[21]
scritto per il Journal of Electroanalytical Chemistry. L'articolo, a
giudizio di molti esponenti del mondo scientifico, era stato scritto in modo
affrettato, incompleto e conteneva alcuni errori sostanziali sulla misura
dell'emissione di raggi gamma[22].
Nella conferenza stampa Fleischmann e Pons avevano affermato di aver ricavato
una considerevole quantità di energia termica da una particolare
cella
elettrolitica fatta di due elettrodi di cui l'anodo
consisteva in un elemento di
platino, mentre il catodo
era realizzato da un elemento in palladio, il tutto immerso in un elettrolita a
base di acqua pesante (2H2O).
Inoltre i due ricercatori avevano affermato che, oltre alla notevole quantità di
energia termica prodotta, la cella produceva anche un raro
isotopo stabile dell'elio
(3He), la cui presenza poteva essere spiegata come la cenere
prodotta da una particolare reazione nucleare di fusione secondo la reazione:
- 2H + 2H → 3He (0.82 MeV) + n (2.45 MeV)
A conferma e prova dell'avvenuta reazione nucleare, i due chimici portavano
le misure
calorimetriche dell'energia rilasciata dalla reazione e le misure di
irraggiamento
neutronico, dovute ai neutroni ad alta energia rilasciati dalla reazione dei
nuclei di deuterio.
Il 12 aprile Stanley Pons
fece una presentazione trionfale dei risultati ottenuti al congresso annuale
della Società Americana di Chimica (ACS), mentre l'Università dello Utah
chiedeva al
Congresso degli Stati Uniti un finanziamento di 25 milioni di dollari per
proseguire le ricerche. Lo stesso Pons, al congresso della ACS, aveva dichiarato
che la fusione fredda avrebbe fornito energia in eccesso con un dispositivo che
si poteva definire "tascabile" se confrontato con gli apparati ben più complessi
necessari per la
fusione nucleare "calda".[23]
Per questo motivo, Pons ricevette un invito a incontrarsi con i rappresentanti
del
presidente Bush all'inizio di maggio dello stesso anno.
Difficoltà nella riproducibilità del fenomeno
Una della caratteristiche che hanno creato fin dall'inizio critiche da una
parte della comunità scientifica (nonché accese polemiche), è stata la scarsa
riproducibilità degli esperimenti lamentata dai ricercatori.
Fin da quando Fleischmann e Pons il 13 marzo 1989 inviarono al Journal of
Electroanalytical Chemistry la pubblicazione con le loro ricerche[24],
decine di laboratori fecero centinaia di febbrili tentativi di replicazione, ma
purtroppo una grande parte di questi non diede esiti sicuramente positivi;
risultava perciò evidente che le condizioni alle quali il fenomeno si poteva
produrre erano molto particolari e quasi del tutto ignote anche ai due
ricercatori, oppure questi si basavano su effetti non reali o spiegabili solo
con particolari fenomeni di origine elettrochimica.
Questa difficoltà nella dimostrazione oggettiva del fenomeno, unita ad una
particolare situazione di grande attesa da parte del pubblico (amplificata
dall'atteggiamento sensazionalistico dei media)[25])
fecero sì che alla fine si gettasse discredito sull'intero argomento.
Per contro, vari ricercatori che operano nel campo della fusione fredda
avanzarono varie spiegazioni a giustificazione di questa difficoltà: essi
sostenevano che il protocollo da seguire redatto dai ricercatori Fleischmann,
Martin & Pons non includeva una condizione assolutamente necessaria affinché il
fenomeno stesso potesse svilupparsi, ovvero che fosse raggiunto un rapporto
di caricamento estremamente elevato,[26]
da parte del deuterio, nella matrice di palladio, rapporto che doveva essere,
come poi fu teoricamente dimostrato dai lavori di
Giuliano Preparata,
uguale o superiore a 0,95. Senza la conoscenza e successiva applicazione di
questa informazione[27]
non era possibile ottenere una sufficiente costanza nei risultati da parte di
chi tentò di riprodurre l'esperimento[6].
Critiche
Le ricerche di
Morrison
Il fisico Douglas R.O. Morrison[28]
ha scritto nel 1991 un articolo
di critica sulla Fusione Fredda[29],
prendendo spunto dai vari esperimenti fatti nei due anni precedenti. Nel
riassunto dell'articolo, poi, vengono fatte diverse considerazioni, tra le
quali:
- Non vi è produzione di calore di eccesso.
- È evidente che il bilancio finale è fortemente contro la presenza di
prodotti di fusione.
- È stata osservata una curiosa regionalizzazione dei risultati.
L'articolo si conclude con la seguente considerazione: La Fusione fredda
si spiega meglio come un esempio di "Scienza
patologica".
Storia
dello sviluppo della ricerca
Le prime polemiche
Le polemiche cominciarono a montare alla successiva conferenza della Società
Americana di Fisica (APS), il
1º maggio 1989, a
Baltimora. Furono riportati
i risultati di una collaborazione fra un gruppo dei
Laboratori Nazionali di Brookhaven e l'Università
Yale che, riproducendo il dispositivo utilizzato da Fleischmann e Pons, non
ottenevano né energia in eccesso, né soprattutto produzione di neutroni.[30]
Simili risultati furono poi riportati anche da ricercatori dei Laboratori di
Harwell, vicino a Oxford, nel
Regno Unito.[31]
In novembre, uno speciale gruppo di scienziati incaricati dal
Dipartimento dell'Energia statunitense (DOE) si pronunciò in modo negativo
sulla fusione fredda,[32]
mentre già alla fine del 1989
negli Stati Uniti la fusione fredda veniva identificata come un fenomeno di
pseudoscienza. Negli
anni novanta
negli Stati Uniti la ricerca sulla fusione fredda fu scarsa, mentre cominciavano
ad emergere gruppi che se ne occupavano in
Europa e
Asia. Nel luglio del
1990 Fleischmann e Pons
correggevano il loro articolo iniziale con un ponderoso lavoro di oltre 50
pagine, nel quale spiegavano i dettagli del loro esperimento.[33]
Cominciavano anche ad emergere i retroscena della vicenda del
1989. Nel
1991
Eugene Mallove, che era capo redattore scientifico dell'ufficio stampa del
MIT, ammise che l'importante relazione scritta dal Centro Ricerche sui
Plasmi del
MIT nel 1989, e che aveva
avuto un'influenza non piccola nelle polemiche sulla fusione fredda, contenesse
dei grafici in cui i dati erano stati modificati senza alcuna spiegazione.[34][35]
Secondo Mallove, questo avrebbe precluso qualsiasi tentativo di ottenere calore
da dispositivi a fusione fredda al MIT, in modo da evitare possibili cali nei
finanziamenti della fusione "calda".[36]
Una voce ancora più autorevole fu quella del
premio Nobel
Julian Schwinger che
nel 1990 ammetteva che molte
redazioni di riviste scientifiche si fossero adeguate alle pressioni negative
degli ambienti accademici contro la fusione fredda.[37]
I
dubbi sulla realtà fisica del fenomeno
Una consistente parte della comunità scientifica internazionale ha accolto
con scetticismo e sfiducia i risultati sperimentali, risultati che spesso hanno
suscitato grosse polemiche. Uno degli argomenti più citati dai detrattori sulla
realtà delle caratteristiche nucleari del fenomeno della fusione fredda, è
quello secondo cui in essa si produce un numero di particelle nucleari troppo
basso per poter giustificare il calore prodotto. Inoltre esistono ancora
moltissime controversie (principalmente di tipo teorico) sulla natura e sui
meccanismi della fusione fredda.
A posteriori, Fleischmann e Pons riconobbero alcuni
errori nella misura dell'energia rilasciata dalla cella elettrolitica, e
soprattutto nella misura del flusso di neutroni che sarebbero stati prodotti
dalla reazione; tuttavia non smentirono mai di avere effettivamente misurato una
contaminazione di elio negli
elettrodi, adducendo questo fatto a prova dell'eventuale presenza di una
reazione di natura nucleare. Sulla natura nucleare di quest'energia nel corso
degli anni furono effettuati vari test ed esperimenti, ad esempio quello
compiuto nel 2002 sotto la
supervisione di Carlo Rubbia
dai laboratori italiani dell'ENEA
di Frascati, vicino a Roma[38].
Secondo alcuni studiosi, i molti risultati negativi ottenuti da vari
laboratori nel tentativo di replicare il fenomeno, diedero fiato, specie negli
Stati Uniti, ad una reazione accademica piuttosto negativa, che in certi
casi fu più simile ad un'azione di
censura che non ad una
legittima critica scientifica ai risultati sperimentali[39][40].
A distanza di più di 10 anni dall'episodio, come ha indicato il
premio Nobel
Carlo Rubbia in un
convegno nel 2000 in ricordo di
Giuliano Preparata,[41]
si può affermare che la fusione fredda sia stata presentata nel
1989 in modo affrettato, creando
eccessive aspettative: ciò fu in parte dovuto al fatto che Fleischmann e Pons
erano chimici,
e non avevano diretta esperienza del tipo di misure necessarie per provare che
un'effettiva reazione di fusione fosse avvenuta.
La ricerca sulla fusione fredda a confinamento chimico
Negli anni che seguirono l'annuncio di Fleischmann e Pons, le ricerche sulla
Fusione Fredda andarono via via scemando in tutto il mondo, rimanendo sempre più
un argomento di nicchia, con un numero ufficiale di ricercatori attivi tra le
100 e 200 unità e pochi laboratori. In queste condizioni i progressi
nell'approfondimento delle ricerche sono stati abbastanza lenti ed hanno portato
a risultati non sempre chiari, anche perché, a causa di un certo disinteresse
per l'argomento da parte delle principali riviste del settore, spesso non è
stato possibile attivare quell'importantissimo meccanismo di verifica che è il
peer review[42].
La fusione fredda continua ad essere oggetto di ricerca in alcuni Paesi, tra cui
l'Italia. Qui di seguito una
sintesi dei principali esperimenti e dei risultati che ne sono stati dichiarati
dai rispettivi autori.
1990: il titanio in sostituzione del palladio
Il gruppo italiano Antonella De Ninno, guidato dal professor
Francesco Scaramuzzi, ha realizzato presso l'ENEA
di Frascati un esperimento
utilizzando il titanio al
posto del
palladio[43].
L'esperimento ha evidenziato che quando il titanio assorbe del gas deuterio a
bassa temperatura, si verifica un surplus di energia con conseguente
emissione di neutroni.
1993:
possibile presenza di trizio
Le prime critiche sulla realtà del fenomeno della Fusione Fredda riguardavano
la presunta assenza di ceneri, conseguenza prevedibile di una qualche
reazione di natura nucleare; nel caso specifico, essendo il fenomeno
ipotizzabile come un particolare tipo di reazione di
fusione nucleare, i
vari gruppi di ricerca hanno immediatamente iniziato a cercare tali ceneri nella
forma di un qualche isotopo
dell'elio.
Il gruppo di ricercatori capitanati da Fritz G. Will del Department of
Chemical and Fuels Engineering, Università di Salt Lake City, nello Utah, ha
osservato una correlazione tra la produzione di
trizio ed il caricamento di un
filo di palladio con un caricamento pari o superiore all'unità[44][45]
1998-2003: Ohmori e Mizuno sull'elettrolisi al plasma
Schema della cella elettrolitica al plasma di Ohmori e Mizuno
Alla fine degli anni novanta, i ricercatori
giapponesi
T. Ohmori e
Tadahiko Mizuno[46]
hanno annunciato la possibilità di ottenere reazioni di fusione fredda, con
riproducibilità del 100%[47][48],
senza utilizzare il costoso e raro
palladio né l'acqua pesante (D2O), ma solo attraverso una
particolare elettrolisi realizzata con elettrodi di
tungsteno, sommersi in una
soluzione di comune acqua (H2O) e
Carbonato di
potassio (K2CO3) tra i quali era stata fatta passare
una corrente con differenza di potenziale di circa 160-300
V[49].
A tali condizioni, quando la temperatura della soluzione supera i 70-80 °C,
intorno alla parte immersa dell'elettrodo di tungsteno si ottiene la formazione
di una bolla di plasma, che porta rapidamente all'ebollizione dell'elettrolita;
allora, dissero i due ricercatori, si può produrre un bilancio energetico
positivo, composto da una emissione termica dal 20-100% superiore all'energia
elettrica spesa per sostenere la reazione, più una certa quantità di idrogeno
gassoso. Quest'ultimo, secondo quanto affermato dagli stessi ricercatori, può
portare il COP (coefficient of performance) complessivo del sistema ad oltre il
500%[50].
Essendo il protocollo sperimentale assai semplice ed alla portata di
qualsiasi laboratorio di elettrochimica, immediatamente parecchi ricercatori
pubblici e privati eseguirono moltissime repliche dell'esperimento, ottenendo
risultati non sempre positivi[49];
spesso vi applicarono alcune varianti[51][52],
quasi tutte dichiarate dagli autori aventi esito positivo, ovvero con la
formazione della bolla di plasma e la fusione dell'elettrodo di tungsteno, ed
una emissione termica dal 20 al 100% superiore all'energia spesa per sostenere
la reazione.
Le misurazioni di assorbimento, necessarie per determinare l'efficienza
complessiva, sono per loro natura affette da un notevole rumore elettrico dovuto
alla presenza della scarica di plasma; ciò può causare serie difficoltà di
rilevamento e quindi incrinare la certezza di aver determinato l'effettiva
quantità di corrente assorbita dalla cella; per questo, diversi autori, hanno
utilizzato contemporaneamente vari metodi di misura dell'assorbimento elettrico,
in modo da verificare la reale convergenza delle misure.
Attualmente il principale problema di questo tipo di processo è l'elevata
temperatura che raggiunge l'elettrodo di tungsteno, sicuramente superiore ai
3.422 °C, che implica il raggiungimento del
punto di fusione e
quindi lo scioglimento dell'elettrodo nella soluzione. A queste condizioni, per
una cella con un assorbimento medio di 200-500W,
vi è un consumo di qualche cm di elettrodo per ogni ora di funzionamento, il che
rende il processo energeticamente non conveniente nel suo complesso.
Un secondo problema, non meno importante, è la presunta deposizione, sia in
soluzione che sull'elettrodo di tungsteno, di atomi di elementi prima non
presenti nella soluzione nel metallo, ma comunque prossimi al tungsteno nella
tavola periodica[53],
inducendo quindi vari autori ad ipotizzare che sulla superficie dell'elettrodo
di tungsteno possano avvenire processi di
trasmutazione[54].
Critiche sull'esecuzione delle misure
La società EarthTech International Inc. (ETI)[49]
tra l'inizio del 1998 ed il
dicembre 1999, ha svolto tre
cicli di test con il protocollo di Ohmori e T. Mizuno, ma, nonostante la stretta
collaborazione con gli autori giapponesi e l'oggettiva qualità del lavoro
svolto, non è riuscita ad ottenere nessun risultato circa il problema del
guadagno energetico. Questo fatto, secondo i ricercatori dell'ETI, può solo
dipendere dall'oggettiva difficoltà a svolgere corrette misurazioni sui
dispositivi elettrolitici che operano in particolari condizioni, come quelle
riscontrate nel protocollo testato. Ad esempio, a causa del forte rumore
elettrico indotto dal plasma, non è semplice valutare con sufficiente
correttezza l'effettiva energia utilizzata dal dispositivo per lo svolgimento
della reazione. Non solo: non è neanche facilmente determinabile se l'errore
sulla determinazione dell'energia sia in sovrastima o sottostima rispetto a
quella realmente impiegata. Questa difficoltà si ripercuote direttamente sulla
determinazione del corretto rapporto tra l'energia spesa per la reazione e
quella da essa prodotta sotto forma di calore (COP).
Nonostante queste difficoltà, durante tutto il corso della sperimentazione, i
ricercatori dell'ETI sono sempre stati certi della bontà dei criteri di misura
da essi adottati e quindi della validità delle loro misurazioni. A sostenere
tale certezza, i ricercatori dell'ETI hanno fatto anche notare che il COP
misurato con i loro criteri lungo tutto l'arco temporale degli esperimenti era
sempre rimasto prossimo al valore unitario, quindi del tutto insensibile alle
profonde variazioni delle configurazioni sperimentali adottate nel tempo da
essi.
Anche la determinazione della presenza di elementi trasmutati sulla superficie
dell'elettrodo di tungsteno è stata completamente confutata dai ricercatori
dell'ETI, escludendo quindi, secondo le loro ricerche, eventuali processi di
trasmutazione sulla superficie dell'elettrodo di tungsteno.
2002: il Technical Report 1862 della Marina USA
Nel febbraio del 2002, un
laboratorio della
marina degli Stati Uniti rilasciò un lavoro nel quale veniva confermato il
fenomeno della fusione fredda come concreto.[55]
Si tratta di un rapporto di 132 pagine che cerca di fare il punto sullo stato
dell'arte delle ricerche sulla fusione fredda eseguite dalla U.S. Navy dal 1989
al 2002. Gli esperimenti svolti sono stati in particolar modo descritti nel
capitolo 3 (pp. 19), dal titolo "Excess heat and helium production in
palladium and palladium alloys"; in esso sono riportate le analisi
calorimetriche svolte nel 1989 (con tolleranze dell'ordine del 4%) che rilevano
nei vari esperimenti condotti un evidente eccesso di calore e la produzione di
4He (Elio 4) come conseguenza di presumibili effetti di natura
nucleare all'interno della cella[56].
Nel 1992 sono stati fatti
esperimenti con leghe di palladio-boro
(Pd-B) che, con sorpresa degli stessi ricercatori, hanno dato tutti esito
positivo (pp. 21). Nel 1995 l'esperimento è stato poi riprodotto in Giappone con
gli stessi risultati[57].
Successivamente sono stati fatti esperimenti per verificare l'emissione di
neutroni, esperimenti che hanno dato sempre esito negativo.
2004: analisi dello US Department of Energy (DoE)
Organizzazione
del peer-review
Durante la conferenze internazionale sulla fusione fredda (ICCF-10), tenutasi
a Boston nell'Agosto del
2003, alcuni ricercatori
presentarono risultati positivi[58]
che convinsero alcuni accademici americani a proporre di riesaminare la
questione da parte del Department of Energy (DoE).
A questo punto partì un'ampia analisi della letteratura ed un ufficio del DoE
(Dipartimento dell'energia degli Stati Uniti), contattò un gruppo di scienziati
che operavano nel campo della Fusione Fredda in modo da poter riesaminare la
questione dell'evidenza scientifica delle reazioni nucleari a bassa energia (LENR),
ovvero la Fusione Fredda. Agli scienziati contattati fu chiesto di presentare il
materiale che ritenevano più interessante. Sulla base di questo materiale fu
redatto un lavoro riassuntivo dal titolo "New Physical Effects in Metal
Deuterides"[59].
Tutto il materiale così ottenuto venne poi valutato secondo un complesso
protocollo di peer review[60],
al termine, sulla base dei 18 commenti realizzati dagli esperti del DoE[61]
è stato redatto il rapporto definitivo[60].
Conclusioni da parte della commissione
Al termine dei lavori sono stati formulati 3 elementi su cui effettuare la
valutazione, tradotti in quesiti peritali ai quali i recensori hanno dato delle
risposte, qui di seguito riportate[62]:
- Esaminare e valutare l'evidenza sperimentale di episodi di reazioni
nucleari nella materia condensata a bassa energia.
- ...due terzi dei recensori non ritengono che le evidenze (descritte
dai lavori presentati) siano conclusive per rendere certa la presenza di
reazioni nucleari a bassa energia; un recensore trovò invece che l'evidenza
era convincente, mentre gli altri non furono completamente convinti. Molti
notarono che il progetto sperimentale era complessivamente povero, così come
la documentazione, il sistema di controllo e vari altri problemi simili che
hanno impedito la comprensione e l'interpretazione dei risultati a loro
presentati.
- Determinare se comunque l'evidenza è sufficientemente conclusiva per
dimostrare l'esistenza di una qualche reazione nucleare.
- ...La preponderante maggioranza delle valutazioni dei recensori ha
indicato che la presenza di reazioni nucleari a bassa energia non è stata
dimostrata in modo conclusivo. Un recensore ha giudicato che l'evidenza è
stata dimostrata, ma molti altri non hanno risposto alla domanda.
- Determinare se vi è un interesse scientifico che giustifichi la
continuazione di questi studi; se sì, individuare i temi e i problemi più
promettenti su cui applicarsi.
- ...Nessun recensore ha raccomandato un programma finanziato con fondi
federali per le reazioni a bassa energia.
La commissione così conclude la sua relazione:
- ...Mentre dall'ultima indagine del 1989 ad oggi vi è stato un progresso
significativo nella qualità dei calorimetri, le conclusioni raggiunte oggi dai
recensori risultano simili a quelle riscontrate nell'indagine del 1989[62][63]
La Energy Efficiency and Renewable Energy secondo il Doe
Se da un lato il parere della commissione sulla realtà del fenomeno sembra
del tutto negativo, la sezione del DoE Energy Efficiency and Renewable Energy[64],
raccomanda di proseguire gli studi per un maggior approfondimento del fenomeno
stesso:
- Riconsiderando sia l'evidenza per la produzione di calore in eccesso
che i prodotti di fusione, due terzi dei recensori del DoE non si sentono di
ammettere, in modo certo, l'evidenza del fenomeno. La maggior parte dei
recensori ha indicato che le evidenze riscontrate non dimostrano, in modo
conclusivo, la presenza di fenomeni di fusione fredda. Nell'analisi finale, i
recensori non hanno potuto trarre precise conclusioni circa l'esistenza della
Fusione Fredda, e quindi raccomandano di individuare nuovi metodi di ricerca
per risolvere le incertezze nei risultati prima riscontrati.[65]
1994-2008: gli esperimenti di Yoshiaki Arata
1998:
fusione fredda dalla DS Cell
Nel 1998, dopo un lavoro durato diversi anni,
Yoshiaki Arata e Zhang
hanno confermato[66]
il riscontro di un notevole eccesso di energia, proveniente da una cella immersa
in acqua
pesante (deuterio) (D2O) e superiore agli 80 watt (1,8 volte
maggiore dell'energia utilizzata per sostenere tale reazione) per 12 giorni. I
due ricercatori hanno poi affermato che l'energia emessa durante tali
esperimenti era troppo grande rispetto alla modesta massa dei materiali
utilizzati dentro la cella perché il risultato potesse essere giustificato come
conseguenza di un'eventuale reazione di tipo chimico.
La cella ideata da Arata, diversamente da altre utilizzate nella fusione
fredda Palladio-Deuterio, è molto particolare, in quanto opera con elevatissime
pressioni[67].
Successivamente, nel 2006, il ricercatore Francesco Celani[68]
dell'Istituto
Nazionale di Fisica Nucleare di
Frascati, ha ripetuto una
parte dell'esperimento di Arata, confermando la presenza di un forte aumento di
pressione all'interno di un tubo, immerso in una particolare soluzione liquida,
tramite il passaggio di una
corrente
faradica.
2008: la
cella a gas di deuterio
Successivamente Arata osservava che una notevole quantità di energia
utilizzata per attivare la reazione veniva dissipata dall'elettrolita sotto
forma di semplice riscaldamento. Pertanto ha successivamente messo a punto una
particolare cella senza elettrolita e senza alimentazione elettrica, la quale,
anche se apparentemente molto differente dalle precedenti celle, in pratica non
se ne discosta molto per ciò che concerne il principio base di funzionamento[69][70].
Arata, nel maggio 2008[71],
ha comunicato alla comunità scientifica internazionale di aver terminato di
perfezionare un protocollo di produzione di energia da fusione fredda,
potenzialmente capace di produrre quantità rilevanti di energia. Questo
protocollo[72]
utilizza un sistema originale composto da particolari nano-particelle di
Palladio disperse in una matrice di
zirconio. Con complesse
procedure di metallurgia,
viene ossidato lo zirconio, ma non il palladio, in modo che quest'ultimo sia
disperso all'interno di una matrice
amorfa di ossido di zirconio che, se da un lato risulta permeabile al
deuterio, dall'altro impedisce alle nanoparticelle di palladio di raggrupparsi.
L'esperimento di Arata inizia saturando l'atmosfera della cella con deuterio,
il quale attraversa velocemente la matrice di zirconio e viene quindi assorbito
dalle nanoparticelle di palladio, caricandole e quindi portandole alle
condizioni critiche per le quali si innescano probabili fenomeni di fusione
nucleare. Secondo Arata, una volta avviato il processo di fusione, il sistema
così realizzato è capace di azionare un motore termico, senza alcun altro
apporto di energia[73][74].
2008:
dimostrazione a Osaka
Il primo esperimento pubblico, cui erano presenti circa 60 persone tra
scienziati e giornalisti[75],
aveva come fine quello di dimostrare la riproducibilità del 100% dei fenomeni di
produzione di calore da parte della cella a gas di
deuterio in pressione,
sviluppata da Arata e dal suo collaboratore Yue-Chang.
L'evento ha avuto luogo il 22 maggio
2008, all'Università
di Osaka[76],
con una dimostrazione tutta commentata in lingua giapponese. La cella è stata
caricata con 7 grammi di speciali nanoparticelle e messa in pressione con
deuterio a 50 atmosfere: iniziava immediatamente a produrre energia termica,
senza nessun tipo di alimentazione elettrica. L'energia termica prodotta,
qualche decina di watt, era sufficiente a mettere in moto un
motore termico a ciclo di Stirling. Al termine dell'esperimento i presenti
hanno voluto nominare tale fenomeno Arata Phenomena[77]
L'esperimento è stato eseguito con questo protocollo:
- In un apposito contenitore a pressione, posto all'interno di un
calorimetro e collegato
per mezzo di una tubazione ad uno
spettrometro di massa ad altissima risoluzione[78],
sono stati inseriti 7 grammi di nano-particelle di palladio disperse in una
matrice di Ossido di zirconio
appositamente preparate dal laboratorio di Arata.
- Nella prima fase del test, nel recipiente è stato inserito
idrogeno a 50 atmosfere,
generando così un breve picco termico dovuto all'idratazione
delle stesse, seguito poi da un lento raffreddamento, dimostrando così che in
tale situazione non vi è né emissione di calore, né presenza di 4He.
- Il recipiente è stato poi svuotato, degasato e nuovamente riempito, ma
questa volta con deuterio
a 50 atmosfere. A questo punto vi è stato di nuovo il picco termico dovuto
all'idratazione[79],
ma questa volta il calore non è andato progressivamente scemando, ma è invece
rimasto costante, tanto da permettere il funzionamento di un
motore termico a ciclo di Stirling. Il funzionamento è proseguito per
diverso tempo, in modo da poter accumulare nel sistema una sufficiente
quantità di elio; successivamente è stata fatta una nuova misura del gas
presente nel contenitore, e questa volta lo spettrometro di massa ha rilevato
nettamente la presenza di elio mescolato con deuterio, segno evidente che il
calore prodotto era dovuto ad una reazione termonucleare. Durante la reazione
gli appositi rilevatori di radiazioni non hanno rilevato nessuna emissione
radioattiva.
Arata, durante la conferenza che aveva preceduto l'esperimento, aveva fatto
notare che esso avrebbe dimostrato la possibilità di produzione di elevate
quantità di calore attraverso una reazione di fusione fredda, ma che comunque
sarebbero rimasti ancora insoluti numerosi problemi per lo sfruttamento
commerciale di tale tecnologia.
I problemi più importanti da superare sono quelli legati al mancato
degasaggio dell'elio che
si è formato all'interno delle nano-particelle, che con il tempo porta ad un suo
costante accumulo che di fatto "avvelena" la reazione[80],
ed alla necessità di ricercare un materiale meno costoso e più abbondante del
palladio utilizzato per l'esperimento.
Alcuni ricercatori[81]
hanno criticato la validità della dimostrazione di Arata, soprattutto in
relazione al fatto che egli non ha pubblicato i risultati su nessuna rivista
scientifica soggetta a
revisione paritaria.
Fusione nucleare fredda - Che cosa è la fusione nucleare fredda seconda parte
Fusione nucleare fredda - Che cosa è la fusione nucleare fredda terza parte
Fusione nucleare fredda - Che cosa è la fusione nucleare fredda quarta parte
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